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 2012  dicembre 21 Venerdì calendario

LA STRANA MORTE DI MIO PADRE, ALEXANDER DUBCEK


BRATISLAVA. «Incidente? Io con la mia vecchia Lada russa supero spesso i 130 là, al chilometro 88 dell’autostrada Praga-Bratislava, dove vent’anni fa la megagalattica Bmw serie 7 di servizio di papà, viaggiando stabile e lenta sui 110, sbandò e si capovolse per un po’ di pioggia. Giudichi lei, là di lui resta solo una lapide. La magistratura chiuse in fretta il caso come incidente stradale accertato, negò ai periti della casa premium tedesca ogni diritto d’ispezionare l’auto, negò a noi figli nella sua lunga agonia di dolore ogni diritto di trasferire papà in un ospedale attrezzato per operarlo per la frattura alla colonna vertebrale, o di farlo visitare da specialisti internazionali. Ricordi tremendi, ma venga, con Repubblica ne riparlo volentieri. Quando in quel 1989, invitato da voi italiani e grazie al pressing di Wojtyla, papà venne a Bologna, riemerse nel mondo. Pochi anni fa il vostro presidente Napolitano in persona mi accolse a Roma con l’ambasciatore slovacco Vallo per un monumento a papà. Mi commosse. Vi resto legato nei ricordi».
Il dottor Pavol Dubcek a tratti gli occhi umidi, il sorriso triste che illumina il volto evoca quello del padre.
Silenzio di un momento tranquillo, qui all’emergency room del reparto traumatologico, al terzo piano della grande Poliklinika di quartiere anni Sessanta. Il riscaldamento troppo alto come ai vecchi tempi tiene lontano il primo freddo che approda esitante a Bralislava, oggi ricca e addobbata per Natale. Sono passati vent’anni e sembra ieri. Come per Olof Palme, o per John Kennedy, troppi misteri restano irrisolti. Lui, il dottor Pavol Dubcek, medico in prima linea e figlio segnato dalla Memoria, ci conduce per mano nel flashback tra sospetti terribili e rimembranze di una vita di famiglia attraverso la Storia.
«Papà, in quella fine del ’92, era rimasto lo stesso di quando ci portava in vacanza in Crimea, e tra tutti i leader dell’Impero o gli alleati sceglieva solo alcuni per appartarsi a parlare, chiedendoci di lasciarlo solo e tranquillo con quel signore, e di andare a giocare o in spiaggia. Lui e Tito, lui e Kádár, lui e Ceausescu giovane. Non lui e il tedesco-orientale Ulbricht o il bulgaro Zhivkov. Credeva nella politica come impegno per la gente, sperava di migliorare quel sistema in cui voleva credere, ma da cui aveva incassato traumi e delusioni».
Il ricordo corre all’infanzia e alla sua adolescenza di figlio dell’unico leader dell’est brezneviano che avrebbe vinto libere elezioni. «Nel ’92, si batteva contro la divisione della Cecoslovacchia in due Stati, ma soprattutto contro le privatizzazioni selvagge e disinvolte che gettarono tanti lavoratori onesti nella catastrofe umana. Dava fastidio, è ovvio, ma non volle mai trasmetterci timori, né allora né prima».
Ricordi. Ferie d’estate al sole e al mare di Crimea, il riposo ufficiale, ma anche un po’ demodé-semiletterario, delle élites dell’Impero del Male che fu. Elites in cui militava anche tanta gente come il padre Sasha, che aveva mantenuto un profondo tratto umano, e in assoluta buona fede si tormentava. Ascolto Pavol Dubcek, quasi narrasse d’un Mondo di ieri di Stefan Zweig, versione realsocialista.
«In vacanza, o a casa a Praga, papà non si lasciò mai sfuggire una parola che potesse segnalare le sue tensioni, i suoi timori. O meglio, quasi mai. Adorava mamma Anna e, a noi, tentava di risparmiare ogni paura. Solo una volta, poco prima che nel gennaio 1968 fosse eletto primo segretario e lanciasse il suo tentativo di riforma, ci disse che Novotny (il dittatore tardostalinista cecoslovacco al potere prima della Primavera di Praga) mostrava di odiarlo in modo sospetto, troppo aperto e inquietante. Al punto da disertare con ostentazione, contro ogni protocollo, le più importanti cerimonie che papà doveva presiedere. Un giorno ci disse: "Anna, amore, figli cari, scusate ma ho deciso di non partecipare più alle battute di caccia tradizionali dei capi del partito. Capitemi, con tutte quelle armi e Novotny che mi odia, non si sa mai. Papà deve restare sano e forte al vostro fianco". Chi sa che cosa pensava quel giorno di settembre in cui il suo ambiguo autista Jan Resnik (un ex della polizia segreta, pare, dal cui thermos Dubcek non si fidava mai di bere un tè o un caffè) lasciò sbandare quell’auto perfetta».
Tito, Kádár, Ceausescu: la memoria di Pavol fotografa precisa le scelte del padre. «Lui cercava di ascoltare quelli che almeno provavano a cambiare il sistema, e sapeva, o credeva di sapere, di chi poteva fidarsi e di chi no. Peccato che Kádár – poi anche noi figli lo capimmo accanto a papà – pur essendo d’accordo con lui nell’animo, alla fine lo tradì, lo lasciò solo, Kádár schiacciato, come già tante volte prima di allora, dalla paura. Ma non è finita, sa?» continua Pavol Dubcek. «Viaggiando attraverso l’Urss, papà non inseguiva privilegi e protocollo a Mosca, no, era più curioso di volare a conoscere kazaki, uzbeki, kirghisi, popoli delle repubbliche a un passo dalla Cina. Una volta ci sussurrò un dubbio: quei popoli con territori così grandi e ricchi, chi sa che futuro avrebbero avuto?».
Dai ricordi del dottor Pavol riemergono illusioni, drammi e speranze, mentre parla guardandoti negli occhi, o abbassandoli a controllare le cartelle cliniche dei pazienti. «Papà credeva in quel sistema, era stato partigiano, aveva visto suo fratello – zio Julius che non conobbi mai – cadere ucciso in combattimento dai reparti Edelweiss delle Waffen-SS. Ma quando anni dopo, come amava raccontarci sottovoce per educarci, seppe dell’orrore dei Cinquanta, la giustizia in mano alla polizia segreta, i prigionieri politici morti di cancro nelle miniere d’uranio, volle ad ogni costo provare a cambiare». Cambiare, pensando alla gente, come nel ’92, poco prima di quell’incidente al chilometro 88, quando voleva battersi per i gli operai gettati in strada dalle privatizzazioni selvagge di apparatciki divenuti oligarchi.
«Lui non alzava mai la voce, ma nel ’68 – io avevo già vent’anni – lessi lo stress sul suo bel volto quando, all’incontro d’agosto a Cierna nad Tisou, Breznev era stato minaccioso: eto vash’e d’elo, affari vostri, gli disse, se continuate con le riforme. Dieci giorni dopo, vennero i Panzer. Noi, come famiglia, fummo divisi e sparpagliati a forza. Papà fu portato a Mosca e maltrattato, a dir poco. Noi fratelli in istituti per la gioventù, in città diverse. Lui tornò, si chiuse nel silenzio. Lo mandarono ambasciatore ad Ankara, speravano che chiedesse asilo, lasciando noi in patria. "Se ama tanto Olof Palme, se ne vada in Svezia, ma la famiglia resta qui" disse Husak (il proconsole imposto dai sovietici invasori) e ce lo fece sapere. Papà volle tornare, ma per rientrare dovette usare i suoi contatti ungheresi. "Non fuggo, resto con voi e col mio popolo" ci disse, riabbracciandoci».
Decenni di arresti domiciliari, vita in un Gulag dorato per tutta la famiglia, ricorda Pavol. L’89 arrivò pochi mesi dopo il viaggio di Sasha a Bologna. «Papa tornò sorridente, non ebbe tempo di contattare Gorbaciov, ma una volta, a tavola, ci disse: "Se è lui a dirmi eto vash’e d’elo, allora mi fido, è diverso". Era tornato a sorridere, e un giorno, passeggiando, osservò: "Pavol, almeno adesso abbiamo la democrazia, vedremo la gente cosa ne farà". Mamma morì poco dopo, lui parve spezzato. Si salvò gettandosi nell’impegno. Prese a cuore la battaglia contro le privatizzazioni selvagge. Poi venne quel giorno, quello dell’incidente».
Sospetti da brivido. Ma Pavol corre ai ricordi migliori della lunga agonia di suo padre Sasha. «Ci parlammo, in ospedale. Era triste e pessimista, ma mi disse di non mollare mai. Mi chiese di volare in Germania al congresso della Spd, di contattare Brandt e la delegazione degli svedesi, e di portare in regalo a Brandt una statuetta di casa cui lui era molto affezionato: una giovane donna che offre una pagnotta, il gesto d’amicizia slavo. Volai in Germania, corsi alla Spd con la statuetta, ma solo il segretario di Brandt, scusandosi, potè ricevermi: "Benvenuto, auguri per suo padre. Scusi, ma il compagno Willy è ormai bloccato a casa dal male che lo sta stroncando". Tramontarono lontani, ma quasi insieme, Brandt poco prima di papà. L’autista Resnik dopo l’incidente si è chiuso nel silenzio più totale, rifiuta ogni contatto con noi. E chi sa dov’è finita quella statuetta che papà mi fece portare a Berlino».