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 2012  dicembre 21 Venerdì calendario

IL MIO GROSSO GRASSO NATALE TEDESCO


BERLINO. Ventisei linee di metro, tra le che ci sotterranee e le sedici sopraelevate, non bastano. Non basta neanche la più bella rete di autobus a due piani o articolati del mondo, né l’idea geniale, che fu del Kaiser, di costruire una città bella, larga, alberata, verde e comoda, pensata per quattro milioni di abitanti, ma che potrebbe ospitarne anche dodici, se solo fosse abituata a stare più stretta, come da noi.
Eh già, si avvicina Natale e gli ingorghi fanno impazzire anche qui. Eppure i berlinesi, berlinesi doc o d’adozione, o d’origine turca, italiana, russa, polacca o quel che vi pare, «spendiamo» sempre di più. La fine del mondo profetizzata dalle leggende Maya, qui nella capitale federale della prima potenza europea ha questo volto di ultima festa, sfrenata, sul ponte del Titanio. Eppure qualche piccolo iceberg ha già scalfito anche il primo della classe d’Europa, e comincia a incrinare le abitudini dei suoi abitanti, i costumi e i conti quotidiani.
Sulla superficie, sembra che il festino dei consumi del capitalismo sociale renano continui, più felice che mai. Tanto più, che coinvolge tutti. Altro che l’Europa meridionale delle penurie di fine mese o dei climi greci di guerra civile: qui, protetti dalla IgMetall o da altre centrali sindacali, che in ogni comparto sono le più forti del mondo, anche gli operai possono spendere. I loro premi annuali vanno dai settemila euro in su, perché i capitalisti che producono qui non travestono una vecchia Chrysler da nuova Lancia, per poi chiudere il marchio glorioso. E negoziano con i sindacati dei Cipputi più forti e felici del pianeta: la priorità non è fare a pugni con loro ogni giorno.
Tutto questo si vede, quando giri per la città: prova a farti largo a Boulevard Berlin, il nuovo enorme shopping center che ha ridato volto e vitalità di consumo a Steglitz, cuore dell’ex «settore americano», insieme a punti d’incontro giovanili e giardinetti. Folla da subway di Tokyo o di Seoul. Prova a parcheggiare sul Ku’Damm, la splendida avenue voluta da Guglielmo II per battere Parigi. Prova, e poi rinuncia. Lo stesso accade a Mitte, l’ex settore sovietico, pardon, l’ex capitale della Ddr. Qui la gente arriva da ogni dove, anche dalle periferie più lontane, e spende. Sarebbe felice, e sorpreso, se fosse ancora vivo, il generale russo Bersarin, primo governatore sovietico di Berlino vinta e occupata: innamorato della città e della sua cultura, provò per primo a resuscitarla dalle ceneri in cui Hitler l’aveva sprofondata, spese alla grande appoggiato da Zhukov per cultura e Kindergarten, e morì misteriosamente sullo sfondo della guerra fredda.
Boom degli acquisti, boom delle spese, dai quartieri alti fino a quelli più modesti o multietnici. La confcommercio tedesca, tenuta a riferire precisa e puntuale e possibilmente in anticipo alla tributaria federale, fa presto i conti: spese medie per Natale, 285 euro a consumatore. Cioè il 9 per cento in più rispetto all’anno scorso. Crisi? Scusate, dov’è? Forse incontrando la Germania merkeliana del capitalismo sociale secoli dopo, le profezie dei Maya si sono sbagliate.
L’altro giorno ad Amburgo mezzo milione di persone affollava il centro per gli acquisti, dunque quasi la metà della popolazione totale della piccola Stoccolma del Nord tedesco. E probabilmente in questo c’è anche un po’ di ostinazione: prima di Natale, scrive Carsten Dierig sull’insospettabile quotidiano liberalconservatore e filogovernativo di qualità Die Welt, nessuno vuole pensare alla crisi.
Eppure, alla fine, la crisi ha deluso i tedeschi, perché contro ogni ottimistica speranza non sta risparmiando neppure loro. Certo, è una crisi che si vede mille volte meno che da noi, però non sono i socialdemocratici che sfidano la Cancelliera per le elezioni di settembre 2013 (sempre che ci si arrivi, appunto, Maya permettendo), né è la Linke, a dire che qualcosa non va. Eh no, è la gloriosa Deutsche Bundesbank, il più fiero fortino del sistema, i «Templari di Buba» di Wilhelm-Epstein-Strasse a Francoforte, per i quali Mario Draghi è quasi un greco spendaccione, se non peggio. E sapete che cosa dicono? Che la congiuntura tedesca incassa il pugno allo stomaco di una frenata brutale, colpita dalla crisi del Sud. Crescita se va bene da pigmei, 0,4 per cento l’anno prossimo. Poi il Paese reggerà il colpo perché ha un’industria forte, rassicurano subito Jens Weidmann e i suoi Templari. Ma sì, via, sicuramente avranno ragione: We are arrogant because we are good, siamo arroganti perché siamo bravi, è il loro motto, confessato ai grandi inviati del Financial Times fin dai tempi della guerra fredda.
Certo, se non delocalizzi a oltranza, se tratti col sindacato, se continui a investire alla grande per nuovi prodotti, ricerca e sviluppo (la Volkswagen per esempio investirà 60 miliardi nei prossimi tre anni), ammesso pure che non vada proprio meglio che altrove, di certo andrà meno peggio. Qui nella patria del capitalismo sociale ci si sente lontani anni luce da Torino, dallo Hinterland milanese e dall’Ilva, o dalle grandes banlieues operaie della douce France in declino. Che nessuno s’illuda, però, ammoniscono i severi Templari di Buba: i problemi pesano anche qui, e le fortezze-santuario invulnerabili non esistono più.
Non in Europa, almeno. Opel comincia a suonare la campana a morto; e sta per chiudere lo storico stabilimento di Bochum, la città nel cuore della Ruhr antico centro industriale, operaio e minerario del Paese cantata da Hernert Groenemeyer, il Bruce Springsteen tedesco. Sempre nella stessa area operaia, chiamata «bastione rosso» (rosso che allude all’Spd), l’ultimo colosso europeo dell’acciaio, la ThyssenKrupp, se la passa male: perdite per cinque miliardi, altiforni a rischio, dipendenti col fiato sospeso. Non per la profezia dei Maya, ma per il loro futuro concreto, e quello dei loro figli. Anche qui, nella forte, moderna e sociale Bundesrepublik. Buon Natale.
Andrea Tarquini