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 2012  dicembre 21 Venerdì calendario

SE STATE LEGGENDO QUESTO ARTICOLO E’ (QUASI) ANDATO TUTTO BENE

Se state leggendo questo articolo e diciamo che sono le 8 del mattino, allora sappiate che in questo momento nei pressi dell’isola di Tonga sono le 20 di venerdì 21 dicembre, quindi: fin qui tutto bene. Inoltre, fra poco, da quelle parti scoccherà la mezzanotte e arriverà il 22 dicembre. In fondo la sincronizzazione degli orologi è un vantaggio della modernità.
Ora, se dal Pacifico arriveranno segnali della fine in atto (magari va considerata la mezzanotte tra il 21 e il 22), a noi resteranno un po’ di ore a disposizione. Io tre idee per godermele ce l’avrei. La prima, percorrere tutta la città in moto senza casco e su una ruota sola, e imboccare tutti i sensi unici. Così, per ricordarmi che ho avuto 16 anni e sono stato spericolato, cosa fisiologica, pare, a quell’età, e poi si sa, la parte eversiva che anima le nostre vite, dopo, deve trovare uno sbocco ragionevole e utile alla società, ma nella mia ultima impennata mi godrei solo la sensazione del vento fra i capelli, oltre alla bellezza di scivolare tra le macchine in equilibrio. Di sicuro sfiderei a duello tutti quelli con cui ho discusso animatamente ma civilmente, annuendo, sorridendo e cercando di comprendere le loro ragioni, ma che in realtà volevo solo picchiare perché, appunto, giudicavo le loro ragioni insulse, una perdita di tempo. Sfiderei pure quelli che avevano ragione, e dunque andrei a bussare ai loro portoni e li costringerei in un «ultimate fighter», un combattimento cruento, stile muay thai: che almeno il sapore del sangue e della terra mi possa ricordare che sono ancora vivo. E poi ci sarebbe un’ultima cosa: un salto con il paracadute, da un pendio alto, una specie di canyon con correnti ascensionali, un salto che farei senza esperienza alcuna, durante il quale di sicuro perderei l’assetto o forse no, al contrario, imparerei subito, fatto sta che come specie senziente deve essere un’esperienza particolare assistere agli ultimi bagliori del mondo mentre si è ancora in volo, e chissà se un’ultima folata di vento non mi allontani dalla terra.
In fondo la retorica dell’apocalisse ha due tipi di problemi, ci reputiamo così fortunati da assistere alla fine del mondo e, nello stesso tempo, ci chiudiamo nel nostro giardino, riducendo al minimo gli scambi e ogni ipotesi di decenza e civiltà. Succede spesso e i Maya non c’entrano. La sensazione dell’apocalisse ci sorprende quando non siamo stufi del passato (una tendenza italiana), anzi crediamo che questa dimensione nasconda chissà quali valori, e nello stesso tempo non abbiamo voglia di futuro. Se il passato è un luogo ideale, se il presente è corrotto, il futuro non può che essere apocalittico. Cosa altro possiamo fare se non cercare di sopravvivere alla men peggio, a discapito degli altri? Poi si sa, almeno quanto il pessimismo, l’eccesso di ottimismo è fastidioso — tutti questi sorrisi e queste motivazioni che mettono ansia. Scommetterei sulla malinconia. Che al contrario della tristezza (l’assenza di gioia) identifica il senso del limite. Dunque ci consegna un’inaspettata inquietudine, la sensazione che il presente non ci basta. Un po’ come essere a teatro nei camerini con il direttore di scena che ci avvisa: meno cinque minuti.
In quei momenti ci sentiamo come condannati a morte, sì, abbiamo dei limiti e pensiamo: tutto è sbagliato, la recita sarà un fiasco. Poi entriamo, lo spot ci illumina e sentiamo che sì è vero, il mondo è pieno di problemi, ma noi siamo qui, su questo palcoscenico e così, con tutti i nostri limiti, battuta dopo battuta andiamo avanti, e accanto alla malinconia, sentiamo farsi strada un piacere contagioso: la sensazione che dobbiamo fare il nostro lavoro e farlo bene e farlo insieme agli altri e soprattutto preparare in fretta, prima che il sipario si chiuda, un nuovo palco per i nostri figli, in senso lato intendo, quelli naturali e quelli generici.
Antonio Pascale