Gian Antonio Stella, Corriere della Sera 21/12/2012, 21 dicembre 2012
FARSA E VELENO NEI TITOLI DI CODA
«Caaalma! Caaalma!» Ha risposto così il presidente della Commissione Bilancio del Senato, il pdl Antonio Azzollini, a chi chiedeva impaziente, a partire dal governo, l’ultimo sì per il varo del decreto sulla incandidabilità e il divieto di ricoprire cariche pubbliche per chi sia stato condannato anche in Cassazione a pene superiori ai due anni.
Dicono di là che non c’erano alternative, che troppe cose da fare si sono ammucchiate all’ultimo momento, che l’ingorgo è tale da imporre alcune priorità e che semmai era più urgente la legge sull’obbligo del pareggio di bilancio, indispensabile per tranquillizzare l’Europa inquieta per il dopo Monti. Dicono di qua, nella scia di un’osservazione di Annamaria Cancellieri, che proprio non si capisce perché la Commissione Bilancio, teatro l’altra notte di un vero e proprio assalto alla diligenza per caricare sulla legge di Stabilità (tornata a essere l’«ultimo treno per Yuma» della legislatura) un’infinità di emendamenti di spesa, debba poi mettersi di traverso a una regola che non costa nulla e aiuterebbe gli stessi partiti a liberarsi di un po’ di zavorra.
Non bastasse, lo scontro su questo intralcio alle «liste pulite» (e sull’interpretazione di questo intralcio) è andato a sommarsi col pasticcio sul via libera a mille sale da poker live che il governo prima aveva deciso di rinviare, poi ha chiesto di ripristinare (sopprimendo la soppressione) perché ne era nato un buco nei conti e infine ha promesso ieri pomeriggio di rivedere, sotto la grandinata di polemiche indignate, garantendo «ulteriori valutazioni che potrebbero portare alla abrogazione». Testuale. Un’approvazione con retromarcia incorporata.
Non bastasse ancora, l’«ordinato compimento della legislatura» tanto invocato per zittire i corvi del malaugurio è stato scosso da una rissa ulteriore. Quella sulle norme per la presentazione delle liste. Fino a pochi mesi fa pareva un problema secondario. Ognuno raccoglieva le firme prescritte e se ne mancavano «si arrangiava» nel reciproco silenzio. L’inchiesta lombarda nata dagli esposti radicali, col rinvio a giudizio di una dozzina di persone, ha cambiato tutto. Di qui la decisione del governo di rendere meno dure per i nuovi partiti le vecchie regole, col dimezzamento del numero delle firme necessarie per presentare una lista. E per contro la pretesa di chi già siede in una assemblea, regionale o nazionale, di scavalcare il problema con un parallelo ritocco alle norme: chi ha un gruppo è esentato dal pedaggio delle firme. Ed ecco all’ultima seduta del consiglio regionale lombardo lo «spacchettamento» in tre del Pdl. Seguito ieri dallo sbocciare in Parlamento di un nuovo codicillo: possono non raccogliere le firme i partiti che si sono costituiti in gruppo parlamentare entro il 20 dicembre. Ad esempio quello di Ignazio La Russa.
Come possa finire questo tafferuglio sui titoli di coda si vedrà. Ma sono bastati pochi giorni per fare riemergere le chiazze di veleno che intossicavano la nostra vita politica prima che l’emergenza obbligasse tutti a un anno di (mal sopportata) «Pax Montiana». Fatto sta che andiamo al voto con la vecchia legge elettorale che tutti giuravano di voler cambiare. Per rinnovare Camere identiche a quelle che tutti giuravano di voler dimezzare. E probabilmente senza quelle regole (minime) sulle liste pulite che tutti giuravano di voler approvare. Proprio l’ideale, per riavvicinare i cittadini alla buona politica.
Gian Antonio Stella