Ettore Livini, la Repubblica 21/12/2012, 21 dicembre 2012
ALITALIA SUL BARATRO, IL SALVATAGGIO È DA RIFARE
LA TELENOVELA Alitalia a quattro anni dal salvataggio targato Silvio Berlusconi e puntellato da 3 miliardi di soldi pubblici – torna al punto di partenza.
I CONTI, malgrado il lavoro della cordata dei patrioti, non quadrano ancora: la compagnia perde 630mila euro al giorno, i 735 milioni di rosso accumulati nei quattro anni di gestione privata hanno bruciato quasi tutto il capitale, la liquidità in cassa si è assottigliata a 300 milioni. E i soci – divisi tra di loro e a corto di quattrini – si preparano a giocare il jolly della finanza creativa (lo spinoff con maxi-rivalutazione delle Mille Miglia) per evitare di dover metter mano al portafoglio e ricapitalizzare l’azienda. Il
redde rationem comunque è vicino. Il prossimo 12 gennaio scatterà la campanella del “liberi tutti”.
Gli azionisti, scaduto il vincolo del lock-up, potranno vendere le loro partecipazioni. E nell’arco di pochissimi mesi si deciderà per l’ennesima volta il futuro dell’aerolinea tricolore, sospesa tra la tentazione di una rinazionalizzazione strisciante (la politica, in allarme, ha già iniziato a muovere le sue pedine) e una cessione a prezzi d’affezione a quella stessa Air France che nel 2008 aveva messo sul piatto 2,4 miliardi per farsi carico della società. Senza lasciare, piccolo particolare, un euro di spesa a carico dei contribuenti tricolori.
LA CHIMERA DELL’UTILE
Come si è arrivati (o per meglio dire tornati) a questo punto? Il piano Fenice redatto da Banca Intesa e dagli imprenditori guidati da Roberto Colaninno prevedeva di arrivare all’utile operativo nel 2011. Ridimensionando il
network, ringiovanendo la flotta e spostando l’hub a Roma. In un quadriennio sono stati fatti passi avanti (la flotta Alitalia a gennaio sarà la più giovane d’Europa), la pax sindacale è stata garantita e «la compagnia è viva e nuova », come dice ottimista il nuovo ad Andrea Ragnetti. Peccato che i numeri – l’unica cosa che conta davvero – non tornino ancora. La chimera dell’utile operativo è stata spostata al 2014 («nel 2013 lo scenario peggiorerà»,
mette le mani avanti l’ad). Da gennaio a settembre – complice il boom del greggio, la crisi economica e la concorrenza di treno e
low cost
– l’aerolinea tricolore ha perso 173 milioni, 150 in più del 2011. E da allora le cose sembrano essere peggiorate, con la navetta Milano-Roma (ex gallina dalle uova d’oro del gruppo) che viaggia con il 15% di passeggeri in meno rispetto al 2011 e con i piloti, sussurrano
in camera caritatis
alcuni di loro, costretti a zavorrare la parte anteriore degli aerei per bilanciarli, visto che si vendono solo i posti in coda, quelli meno costosi.
IL NODO DELLA LIQUIDITA’
I 300 milioni in cassa a fine settembre dovrebbero consentire di lavorare ancora senza troppi patemi almeno per un po’ di tempo anche se da oggi fino (almeno) a marzo Alitalia continuerà a mangiare cassa. Il vero problema è a monte e si chiama ricapitalizzazione. Le perdite accumulate in quattro anni – in tutto 735 milioni – hanno bruciato due terzi del capitale. Degli 1,16 miliardi versati dai soci a inizio 2009 (323 messi da Air France, 827 dai 20 “patrioti”) ne sono rimasti circa 400. Troppo pochi. A norma di codice civile sarebbe necessaria una ricapitalizzazione. Peccato che molti dei soci dell’aerolinea – basti pensare a Gavio, Fonsai e Riva – abbiano altre gatte da pelare e non vogliano buttare altri soldi in quello che rischia di rimanere ancora per un po’ un pozzo senza fondo. Risultato: l’unica in grado di metter mano al portafoglio è Air France, portandosi via per poche centinaia di milioni di euro il mercato aereo tricolore e la stessa società per cui nel 2008 aveva messo sul piatto senza batter ciglio dieci volte tanto. Il management, per evitare un finale di questo tipo, ha dato fondo ai manuali di finanza creativa cavando il coniglio dal cilindro: la “societarizzazione” delle Mille Miglia. In sostanza lo spin-off di una scatola vuota cui conferire il piano di fidelizzazione (l’ha già fatto Air Canada) rivalutandone il valore. Un’operazione di ingegneria contabile in grado di far emergere a bilancio il valore dell’asset – i più ottimisti parlano di un’iniezione virtuale di liquidtà di 200 milioni – allontanando
lo spettro dell’aumento di capitale e cavando le castagne dal fuoco a un azionariato con le tasche vuote.
TRA ROMA E PARIGI
Si tratta, come ovvio, di una soluzione tampone. In grado al limite di posticipare di qualche mese le scelte radicali necessarie per salvare di nuovo Alitalia. La strategia dei soci privati – concentrarsi sul mercato domestico e sul medio raggio, affidand—osi per l’intercontinentale ai partner Air France e Klm – non ha pagato. Sul medio raggio l’aerolinea tricolore non è in grado di competere con Easyjet e Ryanair. E l’avvento dell’alta velocità ha ridimensionato i margini sul mercato interno.
«Come uscire dall’impasse? La politica e la finanza tricolore hanno già iniziato a mettersi in azione. Il governo Monti (Corrado Passera 4 anni fa è stato il regista del salvataggio made in Italy) ha sondato con discrezione la Cassa depositi e prestiti. Obiettivo: cooptare il Fondo strategico italiano come cavaliere bianco per scongiurare terremoti occupazionali. Una sorta di ritorno tra le braccia dello Stato. Il progetto però non è di facile realizzazione, se non altro perché lo statuto del fondo prevede investimenti solo in aziende in equilibrio finanziario. Identikit in cui non rientra l’aerolinea. Lo stesso Giovanni Gorno Tempini, ad del Fondo, ha ammesso ieri che «Alitalia non ha le caratteristiche per un eventuale investimento».
Air France sta studiando a distanza la situazione. Lazard ha un mandato per studiare la fusione tra Parigi e Alitalia. L’operazione, numeri alla mano, è praticabile visto che il rally dei titoli del vettore transalpino (raddoppiati in sei mesi) rende realistici i valori di un concambio. Ma il matrimonio non è facile. Fonti della banca francese confermano che al momento siamo ancora ai
pour parler.
Air France sa di avere il coltello dalla parte del manico, ha il tempo dalla sua e non vuole strapagare. Mentre i soci italiani non sono pronti ad accettare offerte che non consentano loro di rientrare del capitale investito. Ipotesi, allo stato, quasi dell’irrealtà. Intanto la sabbia continua a correre nella clessidra. E l’Alitalia salvata da Silvio Berlusconi, pochi ne dubitano, sarà una delle prime patate bollenti sul tavolo del nuovo governo.