Marco Vallora, la Stampa 21/12/2012, 21 dicembre 2012
E SE IL MATTEO DI CARAVAGGIO NON FOSSE LUI?
Un attimo, lettore! Possiamo convenire con te che, tra deliro-attribuzioni, lunari e pataccate; fintecopie tardive, spacciate però, mercantilmente, per autentiche; vispe agnizioni settimanali, per cui ogni stagione si regala il suo nuovo, immaginario pseudo-Caravaggio, parto-isterico di prezzolati, che sognano la facile tribuna della notorietà; al solo nome di Caravaggio, è legittimo tu voglia voltar pagina e fuggir via.
Ma questa è una proposta diversa e più intrigante, perché per certi versi funziona proprio per mettere in discussione le nostre «idee ricevute» e capire che la storia dell’arte è un percorso in perenne cammino e non c’è bisogno di frugare gli abbaini dei ferrivecchi, per tornare a ragionare saggiamente d’interpretazione critica e scoprire qualcosa di «nuovo». Magari entro le viscere di un capolavoro iperconosciuto, iper-analizzato, iper-visitato, come la Vocazione di san Matteo , nella Chiesa di San Luigi dei Francesi, a Roma. Attenzione: non che si voglia disattribuire, questa volta, il grande telero a Caravaggio (che sarebbe una bella bufala!) o cambiare le date in tavola (ché per fortuna son noti ormai i documenti giusti della commessa, confutando tante illazioni critiche) ma provandosi a «disattribuire» un personaggio, Matteo, quello che tutti, avvicinandosi al buio della Cappella Contarelli, son convogliati a ritenere (per diceria secolare, da Bellori a Baglioni a Sandrart) esser lui, quello più in vista: affascinante, ben abbigliato, in primo piano cinematografico (avrebbe scherzato Longhi) tutto agghindato dalle truccatrici, per accogliere il bacio salvifico della luce di Dio. E se invece (e non per capriccio, ma per fonde meditazioni critiche ed iconologiche e liturgiche ecc. ecc.) si provasse a scivolarlo, quale pedina, sulla scacchiera ormai decotta dell’acquiescenzia critica? Secondo una formula dubitativa che suggerisce: «E se Matteo fosse quell’altro?».
Ripartiamo dunque da zero, con un’altra avvertenza, però. Questo delizioso, dottissimo volumetto Medusa, che ci fa per fortuna respirare l’alto livello ossigenato dell’analisi attribuzionistica seria e professionale, pur non sottraendogli una buona pennellata di vernice poliziesca, Caravaggio, dov’è Matteo? , non viene a proporci uno scoop enigmistico, o un rovesciamento strampalato. Ma soprattutto non viene a «venderci»:«Matteo è quell’altro!», rischiando la dotta, rapida confutazione. Pone il problema, legittimissimo, come vedremo, e ha l’astuzia ragionevole (e frizzante) di farci ascoltare all’unisono i vari pareri (tutti autorevoli di grandi studiosi) sia pure in irresolubile confutazione. Così, in un dialogo dissonante ma assai remunerativo, questo volume miscellaneo, concertato da Maurizio Cecchetti, con ottima prefazione, ci fa capire che l’enigma, apparentemente sopito, sotto la cenere di quel rosso arroventato (ma sfiorato, recentemente, anche in una conversazione del Pontefice) risale almeno al 1985, di un interessantissimo intervento di Andreas Prater, a cui molti specialisti qui rispondono, con articolate considerazioni. Le carte in gioco, questa volta (qualcuno pensò si trattasse di una scena di bari, per dire i misteri cifrati) son così numerose, ch’è difficile riassumere. Intanto, è noto che Levi, il gabelliere, l’esattore della tasse,«diventa» Matteo nel momento in cui Cristo, «passando, per la strada» ,lo chiama e lui «improvvisamente» risponde. Abbandonando il suo mondo peccaminoso, rinnegando il suo turpe mestiere e miracolosamente convertendosi. Certo, conosciamo la richieste esatte della committenza, che il giovane Caravaggio, inesperto di grandi tele d’azione, sostituendo il suo maestro insolvente, omaggiò in gran fretta. Secondo alcuni, con non poche acerbità di dettagli. Perfino Berenson scherza su quel dito «stortignaccolo», dell’uomo seduto, che si sta stupendo: «Come, io, dici proprio a me?». Ma se uno si prende la briga di guardare l’opera dal vivo e con attenzione, il sospetto può davvero venirti. Che quell’epulone in primo piano, da oltre 400 anni ritenuto Matteo, in realtà, scoprendosi sotto l’implicazione, in movimento, di quel dito perentorio (che però, come traiettoria, indicherà ben altro) istintivamente «dica», nel linguaggio dei segni: «Ma chi: io, oppure lui?». Con un gesto non storto, ma transitorio, passante. «Lui», così, sarebbe, più biblicamente, quel giovane un po’ lacero, caparbio, che sta contando avidamente i soldi (mentre il presunto altro Matteoricco li depone. «In quanto già convertito?» si chiede Levin). «Matteo» ben più caravaggesco: perché sente su di sé il peso di quella «chiamata» eppure esita ad accettare, e, ebreo come Giuda, conta ancora i suoi soldi (o cerca di nasconderli?) e si sprofonda nei riccioli, come un ragazzo chiamato alla cattedra. Non un martire che si concede con gioia «alla sua croce», suggerisce Ratzinger. Ancora una volta, Caravaggio dipingerebbe così il «tempo fermato» della decisione, che fermenta nella sospensione, immobilizzata, della dubitosa interrogazione interiore. In un momento storico (la Controriforma, il rogo di Bruno, le esigenze di un decoro, alla Bellori) in cui si trova costretto ad usare la «foglia di fico» di quel ricco Epulone di facciata, per esaudire la committenza. Ma poi invita il fedele a capire, a sciogliere lui stesso quel «dubbio»: incarnato in un’azione scenica bloccata, enigmatica. A diventare il fedele, che può e deve scegliere. Identificandosi con il dramma di Levi-Matteo.