Riccardo Arena, la Stampa 21/12/2012, 21 dicembre 2012
LA THAILANDIA ESTRADA IL “CASSIERE” DI COSA NOSTRA
Vuole parlare ed è disposto a tornare, Vito Roberto Palazzolo. Ha già fatto alcuni nomi delle persone di cui può «chiarire la posizione». E in cima all’elenco c’è quello di Marcello Dell’Utri, il cui processo, a Palermo, è alle battute conclusive, dopo 16 anni.
La Thailandia ieri ha dato il benservito al finanziere siciliano, condannato a nove anni per mafia dal tribunale di Palermo: la Corte penale di Bangkok, la capitale in cui l’italo-sudafricano Palazzolo fu arrestato il 30 marzo scorso, ha accolto la richiesta di estradizione avanzata dal nostro ministero degli Esteri.
L’uomo d’affari partito trent’anni fa da Terrasini, ritenuto il riciclatore dei soldi di Cosa nostra, ha preannunciato che non farà ricorso, contro la decisione del giudice thailandese: dunque ben prima della scadenza dei termini (trenta giorni da ieri) dovrebbe essere riportato in Italia. Trova dunque coronamento l’operazione interforze portataavanti dall’Interpol, dallo Sco e dai carabinieri del Nucleo investigativo di Palermo, che avevano individuato Palazzolo dopo la sua improvvisa partenza dal Sudafrica ed erano riusciti a farlo arrestare all’aeroporto di Bangkok.
L’avvocato Baldassare Lauria nega che il suo cliente voglia diventare o che sia già un collaboratore di giustizia: «Però – dice il difensore siciliano – vuole chiarire la propria posizione. Giocoforza, nel raccontare alcuni fatti, dovrà spiegare molte cose. Fino al 1985 è vissuto in Svizzera e lì ha assistito a fatti molto importanti». La Confederazione Elvetica era infatti uno dei centri più importanti per il riciclaggio del denaro sporco e lì, negli anni cruciali del passaggio di soldi provenienti dai traffici di droga e di armi, Palazzolo avrebbe avuto un ruolo privilegiato. Per traffico internazionale di stupefacenti, tra l’altro, l’imprenditore fu condannato con una sentenza divenuta definitiva già negli Anni 80, ma eseguita solo in parte, perché lui riuscì ad ottenere un permesso, a lasciare le carceri elvetiche e a riparare in Sudafrica. Imputati assieme a lui erano, fra gli altri, Totò Riina, il capomafia Leonardo Greco e i boss di Siculiana (Agrigento) Cuntrera e Caruana. Ma c’erano anche forti collegamenti con Bernardo Provenzano. In ottobre, con l’allora procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia e con il pm Gaetano Paci, il riciclatore aveva gettato le basi dei «chiarimenti» che intende fornire.
Il nome di Dell’Utri era venuto fuori nel corso delle indagini sul finanziere e durante i vani tentativi delle autorità italiane di riportarlo in patria. In Sudafrica aveva cambiato nome, facendosi chiamare Robert Von Palace Kolbatschenko, e aveva preso la cittadinanza di quel Paese; e lì è stato per anni in un esilio dorato, arricchendosi grazie alle sue società che trattano diamanti e acque minerali. Però la preoccupazione per il processo italiano non l’ha mai abbandonato: nel 2003, chiamando al telefono la sorella Maria Rosaria, detta Sara (pure lei sottoposta a indagini, arrestata ma poi scagionata), le aveva chiesto di perorare la sua causa, dal punto di vista giudiziario, con Dell’Utri. Perché proprio con l’attuale senatore del Pdl, allora (e ancor oggi) sotto processo per concorso esterno? E perché quelle parole sibilline («Non lo devi convertire, è già convertito»), accompagnate da una risatina ironica? E perché il parlamentare aveva in un primo momento accettato di incontrare la Palazzolo, anche se non si è mai saputo se il faccia a faccia ci fu?