Giovanni Pacchiano, Sette 21/12/2012, 21 dicembre 2012
STORIA DELL’EROE PERDENTE CHE IN SALITA METTEVA LE ALI
[Imerio Massignan, quando la strada si impennava, poteva battere anche Coppi, Gaul e Bahamontes, ma sul traguardo non era mai lui a passare per primo. «Come quella volta che, a 200 metri dall’arrivo...»] –
«Boh, si chiama Imerio, o qualcosa del genere», disse uno del gruppo. Eravamo ragazzi di quartiere, ossequenti ai doveri della scuola ma con l’animo rivolto altrove. Il ciclismo era la nostra passione. Avevamo scovato un quadrilatero di stradette all’estrema periferia sud di Milano, in mezzo ai prati, e nei pomeriggi liberi o nei giorni d’estate facevamo giri su giri. Quando fummo allenati ci provammo col Ghisallo, il passo del Giro di Lombardia. Tornammo a Milano sfiniti. Studentelli delle superiori, col tramonto di Coppi, cercavamo un nuovo mito. Lo trovammo quando, durante la penultima tappa del Giro del ’59, la Aosta-Courmayeur, Charly Gaul attaccò in salita la maglia rosa Anquetil e un solo uomo riuscì a contrastarlo. Imerio Massignan, 22 anni, veneto di Valmarana, passato da poco al professionismo: un giovanotto bello, alto e secco, dall’aria timida. Su di lui si dissero poi storie da leggenda: da ragazzo, nelle ripide salite di casa, portava sul manubrio, come zavorra, un sacco di semola, 20 chili di peso, usando una bici da donna, della mamma, una “Wilier Triestina”, che conserva religiosamente e spesso usa ancora oggi. Uno scalatore puro, proprio come il magico ma non simpatico Gaul; ecco uno in grado di dar la birra al lussemburghese. Andavamo pazzi per gli scalatori puri, e ora c’era lo sconosciuto Imerio: potevamo sperare?
Dannate fatiche. Ho portato nel cuore per mezzo secolo il ricordo delle gesta di Imerio, ma forse non avrei mai pensato di andare a trovarlo, oggi, a Silvano d’Orba, vicino a Ovada, dove vive insieme al figlio Raffaello – perché i miti, di solito, è meglio lasciarli stare – se non fosse per la recente uscita di un bellissimo romanzo, Imerio (Instar Libri, pp. 128, € 13,00), di un altro veneto, di Castelfranco, Marco Ballestracci, bravo armonicista di blues e appassionato di ciclismo. Che, nella quarta di copertina, riporta la frase chiave di tutto il libro: «O pedalavi perché la natura ti aveva fatto il regalo di andare forte in bicicletta o te ne andavi all’estero a lavorare». Libro corale, dunque, giacché si parla delle “dannate fatiche” degli emigranti veneti, uomini e donne, finiti in Svizzera o in Francia, negli anni Cinquanta, a campare come muratori od operai; ma anche libro in cui si inserisce, storia predominante, la vicenda di un altro ragazzo del Veneto, il ciclista Imerio Massignan; figlio di famiglia modesta, «ma non povera povera», mi spiega ora lui, «la mia mamma lavorava alla Lanerossi, e con l’orto di casa ci arrangiavamo, avevamo sempre da mangiare, insomma. Eravamo in tanti, però, sei figli…».
I traguardi mancati. Oggi Imerio ha 75 anni benissimo portati: magro, capelli grigi, gentile, in grande forma fisica: «Ogni giorno faccio chilometri a piedi, spesso sulle colline qui intorno in cerca di funghi; o vado in bici fino ad Arenzano, a trovare mia figlia Alessia». E ha l’aria di chi vive con serenità, rammentando un passato tutto particolare, giacché è stato, per via della sfortuna, nonostante i due gran premi della montagna e i 43 traguardi della montagna conquistati nei Tour de France, il magnifico perdente per eccellenza del ciclismo, un valoroso che ha sfiorato la vittoria nelle grandi occasioni, ma ha vinto di rado. Né mai un Giro a tappe; tuttavia sempre fra i migliori, e secondo al Giro del ’62. Ma è lui a raccontare i momenti clou, iniziando proprio dal Giro del ’59: «La mattina, alla partenza da Aosta, Gaul mi dice: “Mi aiuti a mettere in crisi Anquetil?”. E io ci sto. Il francese, gran corridore e, tra l’altro, gran signore, era maglia rosa. Tiro come un matto sul Gran San Bernardo e sulla Forclaz, mentre sul Piccolo, quando Gaul attacca, Battistini, mio compagno di squadra, mi fa: «Vai più piano, così andiamo su insieme». Io però recupero in discesa e prendo Gaul, poi, a 2 km dall’arrivo, buco una gomma e lui fila via. Vince il Giro, staccando Anquetil di 6 minuti. Io, in classifica, quinto, a 7 minuti». C’è chi vede in lui il più grande scalatore mai esistito, più forte in salita dello stesso Coppi, di Gaul, di Bahamontes. Emoziona sentirlo rievocare, col marcato accento veneto che non ha mai perso, la giornata della sua vita al Giro del 1960, ciò che allora, un pomeriggio di 52 anni fa, abbiamo vissuto, attimo dopo attimo, incollati alla radio. Oggi parliamo nella piccola taverna della villetta di Silvano d’Orba – pulitissima, ordinatissima, benché manchi la mano di una donna. «Mia moglie, Bice, che ho conosciuto nel ’62 in montagna, a Corvara, dove ero in ritiro con la squadra e lei faceva una settimana bianca, è morta quattro anni fa», dice commosso. Siamo dunque all’8 giugno ’60 e alla tappa Trento-Bormio, con Anquetil maglia rosa e Gastone Nencini («bravo, leale», ricorda), staccato di tre minuti e due secondi. E il Giro in gioco. Anche perché la tappa prevede, prima dell’arrivo, un valico da brivido, il Gavia, che unisce l’alta Valle Camonica alla Valfurva. Mai percorso dai corridori prima di allora: 2.621 metri di altezza su una strada strettissima pressoché tutta sterrato, con pendenze terribili. Massignan attacca sul Tonale, mentre i big non si muovono, sono ancora troppo lontani dal traguardo. Sulle prime rampe del Gavia, un percorso di fango, in mezzo a muri di neve alti quattro metri, è solo in testa. «Pedalavo con un rapporto molto duro, 44x25, e salivo bene, ero tranquillo. A quel punto il mio sogno non è unicamente la vittoria di tappa ma anche il Giro. Su, al passo, ho 1’50” su Gaul, ma Nencini e Anquetil sono a 6 minuti, e perciò, se continuo così, ho la maglia rosa per 15 secondi. Ma in discesa mi trovo di colpo per terra: ho bucato la ruota posteriore. Guardo indietro per cercare la moto della Legnano con la ruota di ricambio: nessuno. Piglio imprecando il tubolare che ho sotto la sella, cambio e riparto. Poi, a 8 km. dal traguardo, buco di nuovo, e un cicloamatore mi dà una gomma, ma intanto Gaul mi passa via». L’incubo Gaul. «Lo raggiungo all’ultimo chilometro e però, a 200 metri dall’arrivo, mi scoppia il tubolare davanti. Dopo, piango come un bambino: 120 km in fuga, ma non è bastato». Una maledetta epica scalogna che gli diede tuttavia la celebrità, più di una vittoria. Arriva il Tour, e si corre per squadre nazionali, ma i ragazzi della Legnano, gli amici e rivali Massignan e Battistini, aspettando le salite alpine, con Nencini in maglia gialla, scalpitano. Tocca a Binda, il commissario tecnico, obbligarli al rispetto del gioco di squadra: nella Gap-Briançon li lascia infine andare, ma solo in ultimo, sul Col d’Izoard, a giochi fatti. «Per me vincere nel tappone di Briançon era come vincere tre tappe. Battistini mi aveva promesso: “Non farò la volata”. Non lo avevo attaccato sull’Izoard e lui era secondo in classifica, doveva bastargli. Nossignore, mi ha passato prima dell’arrivo. Ero nero. Per due giorni non ci siamo parlati». A Imerio resta la maglia a pois del Gran Premio della Montagna, e al mondiale del 14 agosto, in Germania, arriva quarto, primo degli italiani, ma non c’è la vittoria che sognava.
Il profumo della vittoria. Viene il giorno, tuttavia, anche per lui: è al Tour del ’61, quando a Superbagnères de Luchon, sui Pirenei – un durissimo arrivo in salita – vince alla grande, in mezzo a una tempesta. «Neanche lo striscione era rimasto». E dopo? Dopo finiscono i sogni: «Nel ’63 ho fatto una brutta nefrite, che mi ha danneggiato la carriera. Ma ho corso ancora sei Giri d’Italia». Con onore. Il resto, dopo il ritiro dalle gare, nel ’70, è storia privata: la tabaccheria dei suoceri a Sestri Ponente, insieme a Bice, e la vita dignitosa e semplice («ho una piccola pensione, e mi basta») a Silvano d’Orba, dal 1977, vicino alle colline: «Io al chiuso mi sento soffocare». Ma non è solo storia privata l’affetto che gli ho visto tributare, anche da gente di passaggio, perfetti sconosciuti, in un piccolo ristorante del centro di Ovada. Né lo è quello dei ragazzi di ieri che ormai siamo.