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 2012  dicembre 21 Venerdì calendario

NON C’È NULLA DI PIÙ MODERNO E GLOBALE DI UN PRESEPE

[Spariscono bue e asinello, gli artigiani attorno alla culla sono in crisi, i pastori hanno smesso di cantare. E la statuina di Berlusconi finisce in ultima fila. Così le nuove scenografie della Natività ci aiutano a leggere come cambia la realtà] –
Un piccolo Gesù malnutrito, di un pallore cadaverico, abita in questi giorni piazza Duomo a Carrara. Se ne sta steso, all’interno di una tenda, sotto gli occhi di due bidoni di carburante, uno rosso e l’altro azzurro, che fanno le veci di Giuseppe e Maria. È la provocazione, fatta presepe, di un gruppo di artisti locali per ricordare Olga Kogut, la giovane ucraina incinta di sette mesi, morta lo scorso febbraio per il freddo, la sete e la fame nella tenda che abitava in un’area industriale dismessa, alle porte della città. «Una rappresentazione molto sincera», benedetta dal parroco don Raffaello, che sembra figlia delle parole di papa Ratzinger nel suo L’infanzia di Gesù: «La povertà è il vero segno di Dio».
Una Natività nuda e molto cruda che conferma l’attualità del presepe, dato ogni anno in declino, con lo spread nei confronti dell’abete (di Natale) in continua ascesa. Peccato che l’albero, alla fine, sia semplice forma, atemporale e (banalmente) globale, mentre il presepe resta narrazione puntigliosa, sostanza del dettaglio ma, soprattutto, un termometro della globalità, attendibile e sincero. A cominciare dalla rivoluzione teologica (e componentistica) della quale è appena stato fatto oggetto. Proprio dal Papa.

Animali esodati. «O Maria cur adorant collaudantes/ Bos, Asellus et Pastores», componeva, nella Milano di fine Cinquecento, il maestro Agostino Soderini, fornendo sacra colonna sonora al Natale. Ma oggi quell’inno, intonato per secoli nelle chiese, è finito pensionato sotto la dicitura: “falso storico”. Difatti Ratzinger nel suo ultimo libro – che guida i fedeli al Natale e pure le classifiche di vendita – ha passato sulle due strofe una mano di Evangelica filologia. Tagliando le presenze inter acta praesepia, come recita la strofa dell’inno, e zittendone altre.
Contrariamente alla tradizione, «i pastori in visita al Figlio di Dio non cantavano», ha spiegato il pontefice: quindi, niente più collaudantes ma pecorai muti. E, soprattutto, niente più bue (Bos) né asino (Asellus) ad alitare sulla Natività come tramandato da quasi un millennio di canti e dipinti: «Nei Vangeli non si parla di animali», ha chiuso la stalla papa Ratzinger.
E tutti a piangere sulla triste sorte del presepe ormai superato, svuotato «di poesia » e «del calore necessario», «del suo magico rituale, devozionale e no» e «dell’antica credenza popolare, visto che il bue rappresenta l’Oriente e l’asino l’Occidente». Parole degli artigiani napoletani, dai Ferrigno ai Di Virgilio – tutti artisti da “tre mangiatoie” se esistesse una michelin dei presepisti –, indignati per il licenziamento in tronco delle maestranze più deboli, gli animali, tra le statuine al lavoro nel presepe: fonti di favolistica partecipazione bambina ma pure, se volete, fonti di riscaldamento naturale e di buon esempio energetico in tempi di sprechi e inquinamenti. E per difendere il proprio lavoro dall’uscita pontificia, Gennaro Di Virgilio ha commentato: «Il Papa spiega la verità storica, ma il presepe è tutto anacronistico».

Tempi biblici. Be’, mica vero. È esattamente il contrario: pochi rituali e rarissime tradizioni hanno da noi – terra natale della Natività ricreata – la capacità di leggere la realtà. Tanto che il pensionamento di asino&bue e i pastori silenziati, conoscendo i tempi “biblici” con cui la Chiesa benedice i cambiamenti, possono essere letti anche come l’addio definitivo a quella civiltà rurale, ancora culla del Papa conciliare Giovanni XXIII. A quel mondo contadino, già salutato da Pasolini, che l’ha ospitato.
E mica è un caso che il “presepe -2” (senza più asino&bue) coincida con la nascita della “Chiesa 2.0”, quella del primo tweet papale, con tanto di hashtag pontificia. Oggi, la verità storica – per la Chiesa quella dei Vangeli – e la realtà tecnologica le servono a mettere all’angolo la credenza popolare e i testi considerati apocrifi, visto che della presenza dei due animali fanno cenno lo Pseudo-Matteo e il protovangelo di Giacomo, quello che Fabrizio De André usò come ispirazione per il suo La Buona Novella.

L’Avvento nazista. Sicché asino e bue, seppure già citati da Isaia («Il bue conosce il suo proprietario e l’asino la greppia del suo padrone, ma Israele non conosce, il mio popolo non comprende»), perdono pure loro, di questi tempi incerti, il privilegio del posto fisso, tornando al lavoro nero (e duro) di quella storiella, in latino, sulla cui traduzione scolastica tanti hanno sbattuto la testa nel corso degli anni: quella che comincia con aesellus et bos in agro una iugum trahebant e finisce con il bue che muore sopraffatto dalla fatica, visto che l’asino non lo ha voluto aiutare, e con l’asino che, di lì a poco, farà la stessa fine, avendo ereditato la soma del compare. Perfetta fotografia, in giorni di crisi, del destino sociale in agguato per endemica incapacità di fare squadra.
E comunque, specchio dei tempi il presepe lo è sempre stato, da ottocento anni in qua. Anche di quelli più cupi, se la censura nazista calò sulle rievocazioni e sui canti natalizi, contenenti la parola ebraica Alleluia (cfr, lodate Yah), depennata dagli inni sacri come dai cartigli mostrati dagli angeli nei presepi in ogni chiesa. L’Avvento perseguitato come una soluzione iniziale, quasi a prendere la rincorsa per quella finale con tanto di olocausto verbale – quasi non fosse stato un ebreo a farsi Verbo – della Natività.
Ma specchio dei tempi vuol dire anche il grande artigianato napoletano di San Gregorio Armeno: cosa significano quelle statuine che, accanto a strepitose lavorazioni di pastori del Settecento, raffigurano, anno dopo anno, i personaggi di ogni oggi, misurandone la popolarità e, la volta dopo, la dimenticanza? Esiste forma più concreta di millenaria attualizzazione, capace di risentire dello spunto cronaca (la statuina vanagloriosa del comandante Schettino) come della scena politica, compresa quella internazionale, ché a Di Virgilio è stata appena ordinata la statuina di Ban Ki-Moon, segretario dell’Onu?

Natività soppressa. Ma pure la rinuncia al presepio, il gesto di “non farlo” o “di non volerlo più fare” calendarizza le stagioni e le mutazioni genetiche di un Paese. In Italia, per esempio, “il suo rifiuto”, con ogni tipo di motivazioni, fa tappa ogni anno in qualche istituto, comunità, associazione e di qui nella polemica politica.
«La decisione è stata presa in accordo con il collegio dei docenti per mettere in luce la multiculturalità», ha appena spiegato la dirigente scolastica Manuela Bruschini della materna di Caorso, nel Piacentino, messa sotto accusa un po’ da tutti – dal Pd provinciale («È una vergogna») alla Lega («Multiculturalismo degenere») – per aver rinunciato ad allestire «qualsiasi cosa indichi un solo culto e non tenga presente tutte le religioni. Quindi anche il Presepe». E pazienza se quest’anno sarebbe stato un presepe in omaggio agli esodati senza più diritti né contratto (il bue e l’ asino) e ai lavoratori tipici, i pastori, ai quali è stato tolto il diritto di manifestare (seppure la loro esultanza).
In fondo cos’è il presepe, e quel suo mondo fatto di fabbri e fornai, pecorai e vasai, falegnami e osti, contadine e lavandaie con bimbi e animali appresso, se non una repubblica (di fede devozionale o anche solo di laica tradizione) fondata sul lavoro? Le Natività, dal primo presepe fino a oggi, come un catalogo di arti e mestieri, oggi in via di estinzione, mentre di blog in blog, c’è una corsa alla soluzione migliore per colmare il vuoto creatosi nella capanna. Tanto che un presepista annuncia, divertito ma convinto, che lui quest’anno ha scelto di «sostituire le statuine dei due animali con un modellino di termoconvettore». Provocatori modernismi che un albero di Natale non conoscerà mai.

Alberisti e presepisti. Be’, a questi livelli non sono arrivati neppure gli artigiani napoletani, quelli che lo scrittore Luciano De Crescenzo ha frequentato da quando era alto poco più di una statuina, ascoltando gli insegnamenti «di zio Alfonso, uno “laureato” in presepi» che, a proposito della querelle tra “alberisti” e “presepisti” – roba da fare impallidire quella tra Antichi e Moderni –, raccomandava al nipote: «Luciano, ricorda che gli alberisti amano la forma e il denaro, mentre i presepisti sono persone di cuore, attente ai sentimenti. Purtroppo le donne sono quasi tutte alberiste, per questo non mi sono mai sposato». E di seguito tornano alla mente i presepi permanenti, illuminati pure a Ferragosto, che Lucio Dalla teneva in casa, nello storico palazzo di Bologna aperto al pubblico a fine novembre, dove la statuina del pastore Lucio, a sua immagine e somiglianza, faceva bella mostra tra le altre, “immobili in cammino”.

Stalle e grotte prêt-à-porter. Scusi, ma glieli comprano? «Certo». Ne vende tanti? «Sì, parecchi». Il signor Gian Luigi costruisce e vende presepi. E il giovedì fa il pieno di ordinazioni natalizie, anche se i portici di piazza Diaz, a Milano, non sono davvero San Gregorio Armeno. Anche lui però ha una sua toponomastica aureolata, arrivando da San Maurizio Canavese, dove s’è inventato artigiano di “presepi da viaggio”. Ciascuno allestito (con musica e luminarie annesse) all’interno di bauli e valigie, di borse e perfino di minuscoli scrigni di carillon: «Così non lo si deve allestire e disfare ogni volta: si apre la scatola-valigia ed è fatta».
I più piccoli stanno persino in una pochette e pure questo riposizionamento e ridimensionamento mostra la vitalità del presepe. E la capacità di non perdere tempo in una stagione dove perdere tempo, affaccendandosi su dettagli e dubbi – una volta segno di perfezione e ragionevolezza –, sembra diventato un peccato mortale. Così, eccolo in versione “fast-faith”, da devozione veloce e portatile, per stare sul mercato.

Comete anti-razziste “Il presepe è fantasia/ ma ti costerà una follia”, cantano Elio e le Storie Tese in Presepio imminente, proponendo di utilizzare “un bove riscaldante” e “Magi guidati dal Gps”, mischiando muschio e ironia. Ma il presepe è sempre stato anche questo: quello dei ricchi e quello dei poveri, mangiatoia di porcellana e vesti di cartapesta, angeli finemente intagliati e bustine di pecore in plastica. Trasversale quanto a ceto, può farsi magnifico diorama o anche solo tre statuette in croce. Sofisticata rievocazione ma anche clamorosa provocazione: del presepe di Carrara, benedetto dal parroco, si è già detto, ma simile benedezione era stata impartita, tre anni fa, anche da don Carlo Vinco alla Natività “anti-razzista” del tribunale di Verona, allestita dal capo della Procura Mario Schinaia – e contestata dal sindaco leghista Flavio Tosi – dove Gesù, Giuseppe e Maria erano tutti e tre neri. In una città dove, dalle piazze allo stadio, i razzismi sono troppo spesso di casa.
E che dire della Curia arcivescovile di Agrigento (la diocesi di Lampedusa) che, in polemica con le leggi sull’immigrazione, eliminò dal presepe i Magi sostituendoli con il cartello: «Gesù Bambino non avrà i doni perché i Re Magi sono stati respinti assieme agli altri immigrati»? O del presepe anti-omofobia, realizzato l’anno scorso a Roma dal centro sociale Pacì Paciana, con un secondo San Giuseppe al posto di Maria?

La capanna che paga l’Imu. Niente di più attuale, e di riflesso globale, del messaggio contenuto in un presepe se per esempio – contrariamente agli altri immobili religiosi – alla povera capanna tocca pure versare l’Imu. Accade a Pergine, in Trentino, dove la tradizionale “Natività del Tegazzo”, pur senza scopo di lucro né fini commerciali, ha dovuto pagare l’occupazione di suolo pubblico al pari delle bancarelle, ché i volontari, già autotassatisi per allestirlo, han dovuto sborsare un balzello di 120 euro.
Sicché anche il presepe deve mettere mano al portafoglio in questo Natale 2012 che si chiuderà, secondo Confcommercio, con un calo dei consumi dal 3 al 5%. In un Paese dove, secondo l’Istat, un italiano su 4 è a immagine e somiglianza della Natività: e cioè, a rischio povertà.
Tanto che al presepe andrebbe, probabilmente, riconosciuto anche un altro merito: di unica tradizione millenaria capace di colmare per qualche giorno o anche solo per poche ore – quelle necessarie a costruirlo – la micidiale faglia generazionale (nonni-nipoti, anziani-giovani, pensionati-nongarantiti) che da noi si è prodotta. Proponendo un parziale avvicinamento d’intenti e mansioni visto che di avvicendamento generazionale non si parla proprio, con malinconiche prospettive per le giovani famiglie con voglia di figlio. Il presepe come uno sguardo sulla famiglia in mutamento, ché globali e sempre più trasversali a geografie, etnie, culture sono oggi le natività.
A prezzo scontato. E, a sbirciare tra i banchi di San Gregorio Armeno, il presepe come il polso del costume italiano, ché le statuine dei maestri napoletani, quelle non-tradizionali, sono spesso il riflesso popolare e umorale del Paese. Prendete l’ultima, raffigurante Berlusconi. Anzi, le ultime due. «Perché le giravolte di Silvio ci hanno fatto uscire pazzi», hanno spiegato gli artisti. Che, alla fine, hanno scelto di produrne due versioni: c’è un Berlusconi con in mano il cartello: “Non mi ricandido per il bene del Paese” e un altro con la scritta “Ritornerò”. Entrambi posizionati in ultima fila, però. In vendita a prezzo scontato e senza imballaggio. Altro che presepe ormai superato: racconta l’oggi. E vale più di un sondaggio.