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 2012  dicembre 21 Venerdì calendario

«ADORO IL FALSO MA CERCO IL VERO»

Poderoso è poderoso. E anche ponderoso. Il volume in cui Umberto Eco ha deciso rac­cogliere i suoi Scritti sul pensiero medievale (Bompiani, euro 35) su­pera le 1.300 pagine e copre un ar­co di oltre mezzo secolo. Dal 1959 a oggi, per l’esattezza, passando per gli studi sull’estetica di Tommaso d’Aquino – che fu oggetto della sua tesi di laurea – e l’Apocalisse com­mentata da Beato di Liébana, le di­verse metafore della conoscenza a­dottate nell’Età di Mezzo e i debiti di James Joyce nei confronti della Scolastica. Impossibile, mentre si passa da un contributo all’altro, di­menticare che il semiologo Eco (splendido ottantenne, sia detto per inciso: il 5 gennaio saranno 81) è l’autore del Nome della Rosa, ro­manzo controverso finché si vuole, ma interamente costruito sulla sua passione ed erudizione di medievi­sta. Chiedergli come sia nato in lui un interesse tanto duraturo può ri­sultare istintivo, oltre che vaga­mente rischioso. «Sono sempre imbarazzato a ri­spondere a questa domanda – e­sordisce il professore – e di solito ri­spondo in modo polemico: c’è del­la gente che è appassionata di alpi­nismo, altri di corse di cani, e io so­no appassionato del Medioevo. La verità è che ho avuto un meravi­glioso professore di filosofia al Li­ceo, Giacomo Marino, che aveva fat­to una splendida lezione su san Tommaso, e san Tommaso mi era così rimasto impresso nella mente quando sono andato all’università. Poi all’epoca militavo nella Gio­ventù Cattolica; non è che questo mi abbia spinto a studiare Tomma­so per ragioni ideologiche, che an­zi mi rifacevo più a Emmanuel Mounier che a neotomisti come Maritain (con cui sono molto seve­ro proprio in questa mia raccolta); ma è che frequentavo abbazie. E nel corso del mio primo viaggio a Pari­gi, a vent’anni, la visita al Musée des Monuments Français , mi aveva ra­pito, con il plastico del portale di Moissac che tanti anni dopo è tor­nato nel Nome della Rosa. Ecco, il gusto per il mondo medievale si sta­va formando a poco a poco e pro­prio in quel periodo avevo scelto il tema della mia tesi. Mia moglie mi rimproverava di non guardare bene le scintille quando accendevamo in campagna dei falò di foglie secche; poi ha letto la mia descrizione del­l’incendio nel Nome della Rosa e mi ha detto: “Allora le scintille le guar­davi!”. E io ho risposto: “no, ma so come poteva vederle un monaco medievale”».

Lei mette spesso in guardia dalla tentazione di adoperare le catego­rie medievali per interpretare la modernità, però indica un possibi­le punto di incontro nel “vorace pluralismo enciclopedico” dei no­stri anni. Quanto c’è di me­dievale nel web?

«Ci sono in comune alcuni aspetti negativi. Il Medioe­vo (ma in effetti l’Alto Me­dioevo prima del Mille, quel­li che erano stati chiamati i secoli bui) aveva perso la memoria del passato classi­co, di cui possedeva solo po­chi testi, e il sapere procedeva sulla base di notizie tradizionali spesso imprecise e intessute di leggenda (si veda l’uso magico di Virgilio), glos­se, glosse di glosse, dove nessuno riusciva più a ricostruire filologica­mente l’origine e la paternità delle idee, da cui il disordine delle gran­di enciclopedie che mescolavano facilmente dati di esperienza e fan­tasie leggendarie. Così è il web, un giovane navigatore dei nostri tem­pi ha perso la memoria del passato, si trova vicino a un universo di no­tizie immenso senza più sapere quale sia vera e quali sia falsa… Quindi il nostro internauta è in pro­cinto di diventare un uomo dell’Al­to Medioevo in attesa di u­na riforma Carolingia e della Scolastica più matu­ra ».

Il Medioevo, lei scrive, e­ra caratterizzato da un’immaginazione forte­mente visiva. C’è stata u­na qualche coincidenza fra i suoi primi studi e la sua riflessione sui media, avviata negli anni Ses­santa?

«Questo non glielo so pro­prio dire. Oserei pensare di sì, ho sempre pensato che pictu­ra sit laicorum literatura, forse è perché ero lettore di fumetti che mi piaceva l’arazzo della Regina Matil­de a Bayeux, e così via. Ma è pur ve­ro che, a quei tempi in cui per un laureato c’erano sbocchi professio­nali, subito dopo la laurea ero en­trato in televisione e lì avevo speri­mentato nuovi linguaggi in un pe­riodo pionieristico. Forse tutto è na­to da un cocktail tra Medioevo e tv. Salvo che il Medioevo è poi andato avanti e la tv è regredita.

Nell’attraversamento del Medioevo Tommaso d’Aquino è sempre sta­to il suo primo interlocutore privi­legiato. Che cosa rappresenta oggi per lei questa figura?

«A parte l’affetto che si prova per il protagonista della propria tesi di laurea, anche se fosse stato Barba­blù, di Tommaso mi piace la pulizia argomentativa, la capacità di vede­re tutti i lati della questione, anche quelli più contraddittori, e poi ten­tare una sintesi. Qualcosa deve es­sermi restato di quella lezione, per­ché non riesco a sopportare i filosofi che non si capisce che cosa dico­no ».

Nei suoi romanzi ha affrontato il tema della falsificazione, spesso in una prospettiva che potremmo de­finire “teologica” (Dio, in definiti­va, è la misura del vero). Non sarà questo il tratto più “medievale” del­la sua opera?

«Questa è una domanda un po’ troppo teologica. Ma c’è qualcosa di interessante in proposito ed è che da certi ambienti cattolici (si sa, non tutti i cattolici hanno la sottigliezza di san Tommaso) mi sono giunte critiche per cui, visto che racconto sempre di falsi, è perché credo che tutto sia relativo e nulla sia vero. O­biezione infantile: per dire che qual­cosa è falso bisogna assumere che qualcosa d’altro non lo sia. Forse in questa mia continua fenomenolo­gia del falso c’è la ricerca continua dei criteri per riconoscere qualcosa come vero – che è poi il problema filosofico per eccellenza. La diffe­renza con san Tommaso è che lui e­ra convinto di possedere la sua ve­rità, e io sono più prudente, e umi­le. Se fossi splendidamente arro­gante come lui dovrei essere santi­ficato. Ma c’è anche un aspetto non teologico del mio interesse per la falsificazione. È che sono convinto (e sono convinto che sia vero) che viviamo sommersi da falsificazioni, dalla menzogna come strumento di potere e di manipolazione del con­senso, dalla diffusione di false noti­zie come arma di destabilizzazione. Questo è il Diavolo».