Marco Damilano, L’Espresso 21/12/2012, 21 dicembre 2012
RI-MONTI CINQUANTA SFUMATURE DI TECNICO
[Da tecnico a politico. In un anno il prof ha cambiato pelle. E ora la sua agenda e il suo nome condizioneranno la campagna elettorale Da quelli in fila per varare una lista in suo nome a quelli che proprio non lo sopportano più. Così Monti divide il mondo politico. E non solo quello] –
Qualche volta ci sembra di essere diventati gran signori ed ogni menomo indizio viene colto al volo e scrutato con intensità di sguardo per trovarvi le prove della nostra prossima grandezza...», scriveva Luigi Einaudi nel 1902, ironizzando sulla tendenza italiana all’esagerazione: «Noi amiamo esagerare a scatti, ora in bene e ora in male». Una delle citazioni preferite da Mario Monti che l’aveva messa a incipit di un suo fondo sul "Corriere" l’11 agosto 1995. E chissà se la frase einaudiana gli è tornata in mente il pomeriggio del 17 dicembre quando, entrando nel magnifico salone delle Feste del Quirinale, ha sentito voltarsi verso di lui gli sguardi dell’establishment della Repubblica, grand commis, ambasciatori, generali, segretari di partito, direttori, riuniti al gran completo per gli auguri del capo dello Stato. Tutti incuriositi, attenti a non perdersi una sola increspatura facciale dell’economista tramutato in Sfinge. Il Professore si muove indecifrabile, affiancato dal fedele Federico Toniato, l’unico cui sia consentito sussurrare all’orecchio del premier. Avanza Susanna Camusso, leader della Cgil, avversaria coriacea, alza il bicchiere, «Buon 2013, presidente», e non si sa se sia un augurio o un avvertimento. Arriva Giorgio Squinzi, il presidente di Confindustria, il capo del governo quasi non lo riconosce. Sfila Pier Luigi Bersani, lo cinge in un abbraccio, un calore personale che nasconde il gelo politico. Con Napolitano non si fa teatro, Re Giorgio non cela l’irritazione, quando Monti lo saluta il presidente si gira ostentatamente sulla tre quarti.
Tredici mesi fa, nello stesso salone, Monti aveva giurato da premier, era un alieno sbarcato sul pianeta della politica italiana per mettere pace e salvare i conti pubblici dal disastro. In poco più di un anno il professore ha rivoluzionato le sue abitudini e perfino il carattere: da tecnico venuto dal freddo di Bruxelles a consumato politico immerso nello studio di sondaggi, simboli elettorali, candidature e auto-candidature. E comparsate nelle trasmissioni nazional-popolari, uscite radiofoniche, visite a Marco Pannella, la sapiente coltivazione dell’attesa per le sue mosse, scenderà o non scenderà in campo?, il tormentone del Palazzo e delle cancellerie internazionali.
«Alla larga dalla politica», gli aveva ordinato la mamma quando era ragazzo, consiglio che il premier ha usato agli esordi del suo governo per segnare la distanza tra sé e le liturgie, i bizantinismi, le miserie dei professionisti di partito. Ma ora i suggerimenti materni appaiono lontani. «Difficile tirarsi fuori dopo che si è fatta un’esperienza come quella dell’ultimo anno», ammette un ministro tecnico dalle fortissime passioni come Fabrizio Barca. «Monti ha scoperto nella maturità una vocazione politica che forse non pensava di avere», analizza Marco Follini, cresciuto alla scuola della sapienza democristiana. «Mi chiedo se abbia già altrettanta dimestichezza con gli strumenti che deve maneggiare». «Anche perché», aggiunge un altro esperto ex dc, Pierluigi Castagnetti, «per uno come lui non ci sono alternative: è costretto a essere sempre il primo».
Eppure fino a poco tempo fa il professore ribadiva che non avrebbe partecipato in nessuna forma alla battaglia elettorale. Allusioni, messaggi in chiaroscuro che venivano interpretati come l’annuncio di una neutralità elettorale: Monti sarebbe rimasto arbitro imparziale durante il match, in vista di altri incarichi, il Quirinale o un’importante poltrona europea. Poi tutto è cambiato. Pesano sulle scelte del premier le preoccupazioni internazionali per il dopo-voto. Ma anche i fatti nuovi che si sono sviluppati nel cortile domestico. A destra, il ritorno sulla scena di Silvio Berlusconi, su posizioni anti-europee. A sinistra, la vittoria di Pier Luigi Bersani contro Matteo Renzi alle primarie e la possibilità di un governo sensibile alle richieste della Cgil e alleato con Nichi Vendola, deciso a cancellare l’agenda Monti. In mezzo, l’anti-politica rappresentata da Beppe Grillo, più la Lega in alleanza con Giulio Tremonti, un altro nemico giurato. E poi la doppia sfiducia: il discorso di Angelino Alfano alla Camera che annunciava l’astensione del Pdl, il casus belli che ha provocato le dimissioni del governo. E l’intervista sprezzante di Massimo D’Alema, «una candidatura del premier sarebbe moralmente discutibile», che a Palazzo Chigi hanno preso come una minaccia neppure tanto velata.
Nelle ultime settimane, insomma, Monti ha cominciato ad avvertire il rischio concreto che il suo lavoro di un anno potesse essere vanificato. E che dai partiti sarebbero arrivati tanti ringraziamenti, un bell’omaggio e poi via, a casa, a godersi la pensione dorata del senatore a vita. Ha intuito che senza una sua iniziativa l’agenda Monti sarebbe uscita dalla campagna elettorale. E con lei il premier, con le sue aspirazioni personali.
L’Iniziativa Monti, ora, è in campo. E promette di deludere chi vorrebbe imprigionare il premier negli schemi tradizionali. Monti sponsor dei centristi, con Luca Cordero di Montezemolo e l’Udc di Pier Ferdinando Casini? «Forse un Centro avrebbe la possibilità di sviluppare in Italia una moderna economia di mercato», aveva scritto sul "Corriere" il 12 agosto 2005. Aggiungendo però in un successivo intervento: «Non ho nostalgia del vecchio Centro dell’era pre-bipolare. Non ha prodotto solo danni, ma era dedito al consociativismo». Monti guida ideale di uno schieramento moderato allargato al Pdl? Di certo corteggia l’elettorato non di sinistra, deluso dal berlusconismo, quando si fa vedere al vertice del Ppe acclamato da mezza Europa, in testa Angela Merkel. Ma il professore ci tiene a far sapere che l’etichetta gli va stretta: «Penso che la morigeratezza nella vita sia opportuna», ha detto un mese fa presentando un libro dell’amico Bruno Tabacci. «Ma in Italia non c’è bisogno di politiche moderate, serve un cambiamento radicale. Si può fare solo se si supera la divisione tra destra e sinistra. Categorie che non reggono più di fronte alle sfide che abbiamo davanti: la modernizzazione, la competitività».
È il Monti «né di destra né di sinistra», quello che negli anni scorsi si faceva sentire dalle colonne del "Corriere". Il Monti che chiedeva «un insieme coerente di riforme per la crescita dell’economia e della società» (12 luglio 2009) e che all’allora capo del governo Berlusconi consigliava di ispirarsi all’aquila, «rapace che ha il suo vero punto di forza nella vista, capace di fissare nitidamente obiettivi lontani». Il Monti che in anni più remoti, era il 1994, scriveva: «Meglio un po’ più di conflitto, in una civile trasparenza, che tanta pace sociale in un’illusione collettiva fondata sul debito». Il Monti che a Palazzo Chigi ha smesso i grigi abiti del super partes per indossare l’armatura del guerriero. E che ora teme il ritorno dei partiti «che hanno governato per una lunga fase che evidentemente non ha avuto una gestione ottimale. Altrimenti non sarebbero stati chiamati al governo dei signori che non erano in politica». La rivolta dei parlamentari di tutti i gruppi contro la riduzione delle province progettata dal governo suona come un allarme.
Il pedagogo supponente, che in un’intervista a "Time" aveva dichiarato l’ambizione di voler cambiare gli italiani («Spero di cambiare cultura e modo di vivere degli italiani, altrimenti le riforme strutturali sarebbero effimere»), è ora accusato di essersi trasformato in un populista, un altro Unto del Signore: «La pretesa di arrestare il declino con cartelli confusi a sostegno di un capo che invoca lo scettro per grazia ricevuta, ha un che di tragico», ha dato l’altolà il quotidiano del Pd "L’Unità", preoccupato di un Monti guida di un nuovo centrodestra contro Bersani. Ma l’impegno politico del professore può sconfinare in ogni direzione, non solo nell’area moderata. Specie se assumerà la forma di un’agenda di riforme da proporre alle forze politiche o ai singoli candidati, un manifesto da firmare aperto all’adesione dei futuri parlamentari in corsa in diversi partiti, un patto trasversale per la prossima legislatura. O, ancor più dirompente, una lista capace di attrarre ambienti diversi.
Il Ri-Monti si presenta in ogni caso come uno scompositore che attraversa la devastata geografia politica dell’ultimo anno, per disegnarne una nuova. A qualcuno può ricordare la formazione creata dai due grandi vecchi della politica israeliana Sharon e Peres, la Kadima che unì pezzi dei conservatori del Likud e dei laburisti. Un’immagine che può tenere se l’iniziativa del premier riuscirà a scompigliare i giochi non solo nel Pdl ma anche nel Pd. Allora lo schieramento che si riconosce nel Professore potrebbe andare diviso alle urne e ritrovarsi unito dopo il voto. Perché l’ambizione è grande: la Sfinge Monti non punta a fondare un nuovo partito, ma un nuovo Stato.