Giuseppe Pollicelli, Libero 20/12/2012, 20 dicembre 2012
RACCONTARE LA PADANIA GRAZIE A UN PALLONE
[Ha rivoluzionato il giornalismo sportivo, ha codificato una lingua e rivaleggiato con Gadda. A vent’anni dalla morte, le pagine di Gianni Brera sono ancora un modello] –
Nel ricordare Gianni Brera a vent’anni dalla sua tragica scomparsa (morì con altre due persone a bordo di una Ford Sierra, sulla strada fra Codogno e Casalpusterlengo, il 19 dicembre del 1992, in un incidente d’auto causato da un operaio 26 enne che spingeva troppo forte l’acceleratore della sua Lancia Thema e che però, assieme all’amico che gli sedeva accanto, salvò miracolosamente la pelle), si è attraversati da due diversi sentimenti. Da un lato la paradossale consapevolezza che nessuno potrà mai rievocare la figura umana e intellettuale di Brera meglio di quanto avrebbe saputo fare lui stesso, eccelso in tutto ciò che è scrittura e dunque anche come estensore di «coccodrilli » (in questo modo magnifico, per esempio, parlò di Beppe Viola all’indomani della morte prematura del giornalista milanese: «Lavorò duro, forsennatamente, per avere chiesto alla vita quello che ad altri sarebbe bastato per venirne schiantato in poco tempo. Lui le ha rubato quanti giorni ha potuto senza mai cedere al presago timore di perderla troppo presto. La sua romantica incontinenza era di una patetica follia. Ed io che soprattutto per questo lo amavo, ora provo un rimorso che rende persino goffo il mio dolore...»).
Dall’altra parte, ed è motivo di consolazione e compiacimento, la sensazione che Brera, in effetti, di essere ricordato neppure avrebbe bisogno, poiché la memoria del Gran Lombardo (egli fu il terzo a potersi fregiare di questo soprannome, dopo Carlo Dossi e Carlo Emilio Gadda) è ancora estremamente viva e, anzi, con il passare degli anni si rafforza e si diffonde la coscienza di quanto il peso di Brera sia stato rilevante non solo nella storia del nostro costume ma anche - e probabilmente di più - nella nostra storia letteraria.
Nato nel 1919 a San Zenone Po, in quell’Oltrepò pavese pregno di umori e sapori di cui diverrà il massimo cantore, Brera si laureò in Scienze Politiche a Pavia nel 1943, mentre era paracadutista nella Folgore. Partigiano nella Brigata Comoli, alla fine della guerra cominciò a scrivere sulla Gazzetta dello Sport, di cui, appena trentenne, diventò direttore. Studioso di atletica, grande appassionato di ciclismo, amante della boxe, molto presto si votò quasi completamente al sempre più popolare calcio, anche perché questo era ciò che gli veniva richiesto da editori e lettori.
Il suo approccio allo sport fu sempre da antropologo: prima dei gesti atletici, che pure raccontava in modo sublime, gli interessavano gli individui che, di quei gesti, erano gli autori. La sua notorietà e la sua influenza arrivarono alle stelle con il passaggio al quotidiano simbolo del Boom economico, Il Giorno. È dalle pagine del giornale finanziato da Enrico Mattei che cominciano a diffondersi, attecchendo nel linguaggio comune, alcuni dei neologismi e delle inedite accezioni che Brera sfornava a getto continuo: da quelli prettamente calcistici (centrocampista, libero, incornare, melina, goleador) ad altri più generici ma non meno geniali come intramontabile, manfrina, ciccare. La sua scrittura ampollosa e barocca, ma sempre miracolosamente controllata, tendeva naturalmente all’epica, ed è per questo che trovò nello sport il territorio d’elezione.
I suoi inarrivabili virtuosismi stilistici generarono una pletora di più o meno goffi imitatori, dando vita a un pernicioso malcostume giornalistico che prese il nome di «brerismo» (in fondo l’ennesimo neologismo, seppure involontario, partorito da Brera). Carattere burbero e bizzoso, Brera coltivò alcune robuste, e forse ricambiate, antipatie, da quella nei confronti di Gianni Rivera, ribattezzato «abatino» a causa di certe eccessive mollezze evidenziate dal milanista sul campo di gioco, a quella per Umberto Eco, che a Brera aveva regalato una definizione che il destinatario, non a torto, gradì ben poco, ovvero «Gadda spiegato al popolo».
Gran viveur e crapulone indomito, era un bevitore dal palato fine che, però, non andava per il sottile quanto a entità delle libagioni. Era pure un accanito fumatore, non solo di sigarette ma anche della pipa e del sigaro, di cui diceva che «va conquistato. È una goduria greve e forte, del tutto priva di frivole moine. La bocca si riveste di una gromma rugginosa sulla quale, sfregato, si accenderebbe anche un fiammifero di legno. Il vantaggio pratico è dato dal fatto che il fumo della boccata non si manda nei polmoni, resta in bocca :al più si espelle dal naso».
Straordinario nella scrittura giornalistica e brillante elzevirista, è stato anche un capace narratore (il suo titolo più famoso è certamente Il corpo della ragassa, romanzo di ambientazione padana pubblicato nel 1969 e divenuto dieci anni dopo un film diretto da Pasquale Festa Campanile) e, negli ultimi anni della sua vita, quando era divenuto la prima firma sportiva di Repubblica, si concesse - riuscendo, grazie al suo carisma, a non apparire mai declinante - numerose apparizioni in mezzo al frastuono del processo di Biscardi.
Se un c’è un filo che, tenacemente, attraversa tutta la parabola esistenziale, professionale e artistica di Brera, questo è però il legame con la sua terra d’origine, l’amore struggente per il Po, la rivendicazione orgogliosa (ma mai becera o strumentalizzabile) delle proprie origini padane. Non a caso fu proprio lui a contribuire all’affermazione del toponimo Padania, lui che di sé diceva «il mio vero nome è Giovanni Luigi Brera. Sono nato l’8 settembre 1919 a San Zenone Po, in provincia di Pavia, e cresciuto brado o quasi fra boschi, rive e mollenti. Io sono padano di riva e di golena, di boschi e di sabbioni. E mi sono scoperto figlio legittimo del Po».
Con la sua prodigiosa scrittura, Brera è riuscito in ciò a cui aspira ogni giornalista e che tuttavia riesce solo a pochissimi, quasi a nessuno: il miracolo di far durare l’effimero, di rendere eterno l’umile articolo che, di solito, finisce in un cestino della spazzatura la sua breve esistenza lunga un giorno appena.