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 2012  dicembre 17 Lunedì calendario

“L’ITALIA DEL 2012 COME IL BAR DI GUERRE STELLARI”

[Mentre al cinema esce il nuovo film “Tutto tutto niente niente” Antonio Albanese parla di politica e del lavoro di attore nel paese dei La Qualunque “Il giorno in cui un deputato della Repubblica festeggiò la caduta del governo mangiandomortadella ho avuto paura” ] –
“É un nuovo personaggio. Provate a immaginarlo, ditemi se vi convince. Si apre il sipario, sul palco c’è un uomo. Sembra tormentato. Si muove, si piega, si siede, intreccia le dita, si morde le mani. Sempre in silenzio. Passa un minuto. Il pubblico è sul punto di chiedersi che cazzo stia facendo, quando l’uomo, finalmente, parla: ‘Nutro un grandissimo bisogno di pregare, ma ho un problema. Non trovo la posizione giusta’”. Quando ride, con relativa consapevolezza, Antonio Albanese lavora. Sottopone le maschere che nasceranno al suo insindacabile giudizio. È un fiuto, un talento, un legno da rabdomante. Se la scintilla non funziona con lui, farà acqua, spegnendosi, da tutte le parti. L’ultima invenzione di Albanese, il “credente inquieto”, il religioso che in un pomeriggio romano di clacson, ombrelli e cupole nella pioggia gli piega il volto in affluenti di rughe facendo ondeggiare pericolosamente la sedia, gli piace. E anche se il Frengo del suo ultimo film ha idee non preclare sui misteri della fede: “Le religioni si occupano molto dell’aldilà, dell’aldiqua invece mi occupo io”, quasi come Martinelli, il filosofo cocainomane che dalla polvere traeva divina ispirazione: “Sulla vita oltre la vita, so praticamente tutto”, l’antica preghiera di un tempo recente: “Cerco disperatamente di non essere troppo famoso” collide con l’allargata trinità dei suoi tanti caratteri. A suo padre Umberto, informato della scelta dell’erede: “Voglio fare l’attore”, bastarono 13 lettere in siciliano: “Sunnu cazzi toi”. Al figlio Antonio, un giorno Epifanio, l’altro Cetto, a volte Drastico, ma mai attore “La Qualunque”, per definirsi non sono bastati 48 anni. In “Tutto tutto, niente niente”, 700 copie distribuite da Rai Cinema e prodotte da Domenico Procacci per Fandango, tre cialtroni delle nature più varie scalano le istituzioni. Il parlamento è una curva da stadio. Il voto, una primizia da mercato nero. L’etica un insulto. Il paradosso una bussola per inquadrare sulla mappa una realtà dostojevskiana più spaventosa di qualsiasi imitazione. Il gesto di Albanese, un mezzo: “Politica e qualunquismo nel film sono pretesti per sventolare sullo schermo un potentissimo strumento fisico. L’arte della comicità pura. La meravigliosa, sottovalutata, ignorata gestualità. La stessa di Jacques Tati e Buster Keaton. Le parole contano, ma limitano. Con una smorfia hai un infinito spettro di possibilità. Puoi dire delle cose, tacerle, negarle”.
Nasconderle.
Il giorno in cui un deputato della Repubblica festeggiò la caduta del governo mangiando mortadella e bevendo champagne in un’aula parlamentare, fui costretto a distrarre mia figlia Beatrice. Avevo molta paura.
Nino Strano, An, febbraio 2008, ultimo giorno del governo Prodi.
Sono a casa, lo osservo in tv, apro la bocca, mi blocco, cerco il telecomando. Abbasso il volume da centometrista, poi faccio due passi verso la stanza di Beatrice: “Hai sentito?”, “No papà, aspettami, vengo di là”. Tremo, inizio a cinguettare: “Rimani in camera, cara. Non venire. Anzi, rilassati un po’. Non studiare”. Poi ho guardato il cane. Aveva visto con me l’esultanza di Strano. I tranci di mortadella. Sembrava turbato. Ho pensato: “Se inizia a cagare in salone non posso neanche protestare”.
Fu il giorno in cui anche Cetto La Qualunque si scoprì sconfitto.
Salgo in macchina con uno dei miei autori, Piero Guerrera. Dobbiamo partecipare alla trasmissione di Fazio. Nel percorso ascoltiamo “No Surprises” dei Radiohead. Nella testa le immagini di Montecitorio rincorrono triangoli di mortadella. Ho un’illuminazione. Vado in scena con l’abito di Cetto e mi tolgo la parrucca: “Amici, compari. Abbiamo perso. Davanti alla mortadella, anche Cetto diventa un moderato”.
Non se ne vedono molti, in giro.
In compenso proliferano i mostri. Mi fa paura Alba Dorata, la xenofobia, la guerra tra poveri, tra italiani e stranieri a cui uno come Beppe Grillo, che non seguo, pone argine e confine con la sua presenza.
In “Tutto tutto”, la Qualunque ha due nuovi compari.
Degni fratelli. Frengo, lo spacciatore di marijuana che quando parla con la madre le imputa di essersi fumata il Tavoliere delle Puglie, e Olfo Favaretto, il secessionista veneto che sogna di “secernere” il Paese e costruire l’autostrada che colleghi la sua abitazione a quella dell’amico più caro, hanno caratteri precisi. Li ho trasposti nel nostro oggi. Un periodo pop avanguardista. Colori acidi. Follie. Eccessi. Deliri.
Dove li aveva visti?
Li ho conosciuti. Sui tram, per strada, nei bar. Mi occupo sempre di gente comune. Olfo segrega i suoi operai africani, ma quando scopre che se la spassano in gruppo sul lettone con sua moglie recita lo stupore con domande ingenue: “Come mai il terzo nero si copriva con due cuscini?”.
Anche verso le figure più abiette nei suoi film pulsa sempre un’indulgenza.
Più che giudicare, amo descrivere l’atmosfera in cui si muove il personaggio. Parto da zero. Da un piano orizzontale. Da un foglio bianco. Da un’apparente normalità. Solo dopo aggiungo ed è per questo che Olfo, Frengo e Cetto o il Ministro della Paura ricordano i nostri politici contemporanei senza somigliare a nessuno . Se iniziassi a lavorare con un La Russa o una Santanché in testa, sbaglierei. Sono casi morfologicamente eccessivi, distraggono.
Cetto però è la sintesi dell’eccesso.
Cetto è il prodotto di una riflessione familiare. Costretto da fame e assenza di prospettive, mio padre aveva presto lasciato la Sicilia. Quando nell’età della ragione tornai nell’isola mi domandai chi lo avesse mandato via. Mi guardavo in giro. Osservavo i passanti: “Sarà stato lui, oppure lui, o magari quell’altro che ricorda da vicino il signorotto dei romanzi di Sciascia?”. Forse erano tutti, ognuno a suo modo.
I mafiosi di Sciascia avevano senso estetico.
La Qualunque l’ha smarrito. Il 2012 è il bar di “Guerre Stellari”. La volgarità deve essere anche cromatica, illuminare il contesto, fungere da illusione ottica. Da esempio. Quando anni fa misi in scena Perego, “il padre” di Olfo, l’industriale ossessionato dal lavoro, vittima di un sistema in cui lavorare 16 ore al giorno nel capannone di eternit per produrre eternit era considerato un pregio, i nuovi ricchi erano ovunque.
Uno spettacolo?
I figli incoscienti, le mogli diventate pavoni alla guida di macchine dalle ruote colorate, larghe 45 metri e alte 12. In famiglie simili, il portafogli pretendeva di orientare anche la natura. Vivevano in ville palladiane. Chiamavano a rapporto il giardiniere: “Qui vorrei le bouganville”. “Scusi signora, ma qui non c’è il clima adatto, l’umidità le uccide non appena le appoggio”. E il marito, rassicurante, metallico, fuori campo: “E quando la muore, ne cumprèm un’altra”. Infinita disperazione.
Lei un giardiniere l’aveva interpretato.
Efrem. Curava le piante di Berlusconi. Quando scoprii che il figlio di Silvio si chiamava Pier Silvio, faticai a crederci. Poi non resistetti. Così nacque Pier Piero, pollice verde interista e gay. Macchietta innocente, fino a quando una mattina, mesi dopo, non mi telefonò mia madre. Donna umilissima, spaventata, atterrita.
Problemi?
Avevano arrestato ad Arcore il vero giardiniere di Berlusconi e Gigi Vesigna, direttore di una rivista oggi estinta, “Il Telegiornale”, mise in copertina la notizia.
Che c’era di strano?
Nella foto c’ero io. Mamma aveva le palpitazioni. Con Frengo e la Gialappa’s fondammo un partito: “Forza Recchie de Gaumma”. Aprimmo le iscrizioni e invitammo alla partecipazione: “Fugge’, mèna mo’, tutti allo stadio”.
Boutade divertente.
Boutade un cazzo. Arrivarono 5.000 firme via fax e la domenica successiva, allo stadio di Foggia, i tifosi issarono 200 orecchie in polistirolo di due metri l’una. In tv, nel ’94, ci divertivamo.
Il primo lampo?
Mi opero di appendicite. Mi dimettono di sabato. Mio cognato noleggia una tv. All’epoca accadeva e, a partire da Paolo Poli, si vedevano cose meravigliose. Il sabato era dedicato a “Oggi le comiche”, condotto da Renzo Palmer. Appena comincia, inizio a ridere. Un riso irrefrenabile. Mi saltano i punti. Mi riportano in sala operatoria. Mio padre voleva ammazzare mio cognato.
Ma non lo fece.
Era un operaio che sapeva ridere. Tornava a casa con la schiena spaccata, sporco, distrutto da ore di cazzuole e cemento, ma aveva sempre una battuta da regalare. Olginate, Lecco, rappresentava una specie di soggiorno obbligato per i meridionali. Nonostante questo, per farsi affittare una casa tutta sua impiegò un anno. “Deve aspettare, è meridionale”.
“Libertè, egalitè, ‘ntu culu a te”.
Esattamente. Umberto non era emigrato per un capriccio culturale. Aveva figli, moglie, dignità da mantenere. Non chiedeva mai una lira in più e alle amarezze non dava corda. Il ritratto glielo fece il genitore di un mio amico: “Se tuti i sicilian fusser cuma el to pà, Umberto el terùn, la Sicilia sarìa el Giapùn”. È morto pochi mesi fa, papà. Al funerale c’era tutto il paese.
Siciliano di Petralia Soprana, lo stesso paese del padre di Silvana
Mangano, ferroviere.
I viaggi in treno erano gironi danteschi. Trenta ore tra frittate, odori, salami, coltelli, voci e pianti. Per trovare posto papà tendeva un agguato al treno. Lasciava le valigie a noi e a mia madre e poi, il 31 luglio, con 46 gradi, assaltava il vagone a un chilometro dalla stazione. Tra le traversine. In aperta campagna. Era una scena western. I bambini a terra, in lacrime e lui a urlare, bestiale: “Passatemi le valigie, presto, ce l’ho fatta” (Albanese riproduce la scena, grida. Suda, quasi).
In fabbrica è stato anche lei.
Tre anni. L’unico tatuaggio che ho è la cicatrice di un truciolo incandescente. È entrato qui dentro (Albanese mostra il polso, sottopelle una linea retta, giallastra, un marchio identitario).
Notevole.
Ho messo la tuta a 14 anni e mezzo. Il signor Gnecchi, il padrone, era un omone. Paternalista, bonario, una brava persona. Nello stupore di miei colleghi, non volevo mai fare straordinari. “Prenda un altro operaio, è più giusto”, gli dicevo. Gnecchi capiva e provvedeva. Quando mi licenziai si mostrò dispiaciuto. Comprensivo.
Perché si licenziò?
Fu colpa di un mio amico. Una sera mi propose di andare a Milano a vedere uno spettacolo teatrale. “Elementi e struttura di un sentimento” di Gabriele Vacis.
Le piacque?
Impazzii. Pensai soltanto: “Quanto mi piacerebbe tentare”. Provai. Prima facendo avanti e indietro con la fabbrica, poi alla scuola di un magnifico esule argentino fuggito dal regime di Videla e infine, per puro caso, con la domanda spedita clandestinamente da un’amica, in Accademia. Alla “Paolo Grassi” prendevano dieci persone su 400.
Tra queste, Antonio Albanese.
L’occasione è a tempo pieno, devo scegliere. Mi licenzio. Non voglio dar vita all’epopea pauperista, ma pur avendo venduto macchina e sax, vi giuro, non avevo una lira. Lo giuro anche a Renato Palazzi, il responsabile dell’Accademia.
Risposta?
“Se non finisci il corso ti spacco la faccia”. Epifanio nasce proprio in quel momento.
Dall’esigenza?
Non c’era alternativa. Con Dario Manfredini mettemmo su carta uno spettacolo ispirandoci a Genet. In scena c’era un signore strano, immobile, stralunato, che fumava avidamente una sigaretta: “L’ho ciulata al prufesùr”.
Epifanio.
Facevamo con quel che avevamo. Le poesie di Toti Scialoja “pipistrello/pipistrello/ti par bello/far pipì/dentro l’ombrello?”, la faccia di bronzo, l’osservazione della realtà. Vado a Zelig e faccio una seratina. Poi due, le 50 mila lire diventano 100, arrivano inviti da Verghiera, Samarate, i primi soldi. Poi la chiamata di Paolo Rossi e Giampiero Solari per “Su la testa”. Due mesi fantastici. La porta su Grugliasco.
Perché Grugliasco?
A Grugliasco cambiò la mia vita. Simona, l’organizzatrice, si avvicina eccitata: “Antonio, ci sono 2 mila persone”. E io serafico: “Io entro prima o dopo le star?”. E lei, incredula: “Sono qui per te”. Sbianco: “Io non salgo, scappo”. Due minuti dopo Epifanio ha i gradini del palco sotto i piedi: “Ti devo dire solo due parole d’amore. La prima è ti...”.
La seconda?
Non faccio in tempo a finire e dal pubblico in coro: “...Amooooo”. Uno choc.
Albanese fa ridere. Albanese inquieta.
Faccio convivere dramma ed elementi comici. Succede anche nella vita. Prenda l’angoscia di Sallusti. Si è incazzato perché l’hanno arrestato in redazione. Ma dove dovevano farlo? È andato in redazione, l’han trovato lì. Se stava a casa, i poliziotti lo arrestavano a casa.
Sarcastico.
Non sempre sono capito, ma non credo al principio dell’unanimità e a volte mi accorgo di essere apprezzato da una certa critica per aspetti che mi fanno orrore.
Le è successo?
Come no. Un critico molto noto si complimentò per un’opera che avevo tratto da un testo di Benni. Mi insospettii: “Ma siamo invecchiati davvero così in fretta?”. Così bussai a Stefano, gli chiesi permesso e rielaborai il copione nei punti deboli. Gli applausi del critico mi avevano messo in allarme.
Per “Tutto tutto” qualche critico ha gridato alla misoginia.
È allucinante, tutta la mia vita è basata sul rispetto, anzi sulla venerazione della donna. Chiedo un saltino, uno sforzo interpretativo. Altrimenti cosa facciamo? Arrestiamo Scorsese? Ascriviamo Tarantino ai nazisti dell’Illinois? Dicono seri: “Come si fa a ridere in questo periodo?”. All’epoca di Weimar l’ironia era fondamentale.
Oggi “Repubblica” l’accusa di qualunquismo.
Oggi abbiamo gli intellettuali da quiz.
A volte il politicamente corretto è un fascismo mascherato.
Avverto in anticipo gli indignati: è un paradosso. Da 22 anni non c’è volta che non mi accompagni un pregiudizio. Se avessi seguito i consigli dei soliti noti, oggi sarei all’Isola dei famosi o morto di fame.
Cosa preferirebbe, tra le due?
Una dignitosa fame. Comunque ero un bravo tornitore, sapevo potare le piante, usare il trapano radiale e avevo lavorato come educatore in un ospedale psichiatrico. Qualcosa avrei fatto.
Ha fatto l’attore. Famiglia Cristiana ha amato “Tutto tutto” e le ha dato la copertina.
Un grande, coraggioso giornale e non certo per l’elogio. Su “Tutto tutto”, Famiglia Cristiana ha capito quello che altri hanno fatto finta
di non capire.
Allude a “Repubblica”?
E con questo, signori, vi offro una bottiglia di vino speciale. La religione mi interessa. Rispetto il mondo dell’associazionismo, degli oratori. Ci sono passato. Qualche dubbio non gusterebbe. Io ho letto il preticello di Caproni: “So che anche voi non credete a Dio, nemmeno io, per questo mi sono fatto prete”.
Progetti?
Un film con Amelio, la storia di un uomo che reagisce al presente con la trasgressiva dolcezza della lucidità. E il ritorno in televisione. Il cinema è indescrivibile, ma richiede un’energia deleteria.
Ci sta lavorando?
Mi piacerebbe, ma sulla Rai di oggi e su quella di domani non si può dire niente che abbia un respiro capace di andare oltre i tre mesi.
Così?
Magari faccio come Santoro e vado sulle tv locali. Per ora invento e quando sarà il momento, come ha fatto, Corrado Guzzanti, il più bravo di tutti anche nei personaggi apparentemente minori (tipo la Vulvia di “Sapevatelo”), tornerò. Magari per allora saranno ricomparsi i pellicani, risplenderanno gli ottimisti, gli intellettuali di sinistra confonderanno Che Guevara e Jovanotti chiedendo ancora “scusissima”, oppure arriverà la Croce rossa a portarmi via. Vi ricordate cosa diceva il cocainomane Martinelli quando lo avvertivano che la sirena era proprio quella dell’ambulanza?
Cosa, Albanese?
“È un’illusione sonora”. Tutto tutto, niente niente. Sapevatelo.