Egle Santolini, la Stampa 20/12/2012, 20 dicembre 2012
L’ABBOZZO DEL FALSTAFF PRONTO PER LA SCALA
Questa è una storia insolita di mecenatismo generato dal basso: e siccome è a lieto fine proietta un po’ di speranza su questi giorni difficili per la cultura italiana. Riguarda tre documenti verdiani, un tempo appartenuti ad Arturo Toscanini e con lui espatriati durante il fascismo. Ereditati dal nipote Walfredo, che è morto a New York l’anno scorso, i tre cimeli sono stati battuti all’asta a Londra da Sotheby’s il 28 novembre e sono tornati a Milano grazie all’impegno di Eni e di Intesa Sanpaolo, che li hanno acquistati per 380 mila euro. In attesa di passare permanentemente al Museo del Teatro alla Scala, vengono esibiti fino al 13 gennaio a Palazzo Marino, nello spazio antistante alla mostra «Amore e Psiche».
Ma il bello è che l’operazione non sarebbe stata portata a termine senza l’interessamento di un piccolo giornale online, Linkiesta , che nello spazio di un weekend ha fatto esplodere il caso, chiedendo l’intervento di Giovanni Bazoli di Intesa Sanpaolo e del finanziere Francesco Micheli. Racconta Jacopo Barigazzi, giornalista finanziario, cofondatore e caporedattore di Linkiesta : «Ho letto la notizia dell’asta sull’ Unità e mi è subito venuta in mente la sottoscrizione pubblica con cui nel 1952 il Comune di Milano riuscì a comperare la Pietà Rondanini di Michelangelo: lo scatto di una buona borghesia fattiva, insomma, che ci metteva soldi e volontà. Lo sforzo economico non sarebbe stato proibitivo: la base d’asta era nell’ordine di 300 mila euro. Mi sono detto: se non si riesce neppure ad arrivare a quello… Sul mio blog si è scatenato il dibattito e alla fine ho lanciato un appello a Bazoli e Micheli. Ne è seguito un happy ending, ma non posso fare a meno di pensare che molte importanti istituzioni che avrebbero potuto muoversi al posto nostro sono rimaste silenti».
Tre documenti, dicevamo. Due spartiti autografi e un telegramma, spedito il 19 marzo 1899 da Verdi a Toscanini. Il pezzo forte è un appunto di 58 battute musicali di commovente interesse storico: il primo abbozzo dell’inizio del Falstaff, privo di strumentazione, dinamica e fraseggio, ma già con il tema d’apertura dell’opera, e con correzioni e cancellature che danno l’idea del modo in cui l’autore ottantaseienne lavorava, nel pieno della propria estrema avventura creativa.
Il secondo spartito è quello di uno dei Quattro pezzi sacri, l’ Ave Maria , con mistero incorporato: perché Verdi la compose sulla base della «scala enigmatica» (do/re bemolle/mi/fa diesis/sol diesis/la diesis/si) escogitata da un insegnante del Conservatorio di Bologna, Adolfo Crescentini, che la pubblicò sulla Gazzetta di Milano , insomma un giochino a cui si invitavano i lettori a partecipare. Verdi ci ragionò un po’, ne discusse pure per lettera con Arrigo Boito, lo abbandonò, lo riprese: eccolo infine sviluppato nell’ Ave Maria , cioè nella preghiera della sera, per quattro voci. Quanto al telegramma, indirizzato tout-court a «Maestro Toscanini alla Scala Milano», ha un testo di quattro parole: «Grazie grazie grazie, Verdi», dimostra quanto il compositore tenesse alle iterazioni (ricordate il suo «Triste triste triste» per la morte di Wagner?) e assolse dal pulpito migliore Arturo Toscanini, che aveva diretto la ripresa del Falstaff al Piermarini a sei anni dalla prima e che era stato tacciato di wagnerismi addirittura dall’editore Giulio Ricordi.
E visto che la Scala vive di corsi e ricorsi, dopo un inizio di stagione venato di qualche polemica e sancito dal Lohengrin di Wagner, l’anno dei due bicentenari prosegue, dal 15 gennaio, con un’attesissima edizione proprio di Falstaff, diretta da Daniel Harding e messa in scena da Robert Carsen. Sarà di nuovo un’occasione per fare festa, riammirando i cimeli che arrivano da Londra. Sempre da Sotheby’s, intanto, il ministero dei Beni Culturali si è aggiudicato per 56 mila euro altre partiture toscaniniane, fra cui le trascrizioni dell’Internazionale e dell’inno americano, Star-Spangled Banner.