Guido Ceronetti, la Stampa 20/12/2012, 20 dicembre 2012
LA FINE DEL MONDO, LA FINE DELLA PAURA
Dire «fine del mondo» è locuzione impura. Subito va posta la domanda: - Che cos’è fine ? Che cos’è mondo ? - La risposta veramente radicale è che non ci può essere fine di quel che non ha principio, e che mondo è un fantasma dell’immaginazione. Però qui siamo , (immersi nell’essere fino a doverlo spiare col periscopio), qui soffriamo l’immane peso di tutto l’esistente finché la morte non ce ne liberi. Tuttavia la morte è aborrita, ed è addirittura un pensiero intollerabile ai più che il simulacro dell’esistente finisca di tormentarci. Ricordare la massima: «A ogni giorno basta il suo male». Ma convince per un istante: abbiamo una nera paura che il male di ogni giorno possa avere un termine, una soluzione, la vedano o no i nostri sguardi fuggitivi. Tanto basta per dire che uomo è il nome di una mostruosità incomprensibile, mentalmente così stramba da arrivare a pretendere che nessuna sofferenza e male del mondo abbiano fine, o almeno una tregua per qualche pugno di miliardi di anni. No! No!
Abbiamo cinquecento nuovi ospedali attrezzatissimi, una cosa mai vista, in cantiere: che orrore, non fosse dato di terminarli! E quel ripugnante grattacielo che imbratterà per un pezzo una nota città nordica, che guaio se un indifferente evento cosmico lo demolisse!
Forzarsi a pensare diversamente, dopotutto, è meglio.
L’argomento 21 dicembre 2012 (ed è domani) mi fa sbattere nel vento, per offrirlo agli assillati, qualche racemo delle vendemmie della mia lunga vita. Vedi per esempio una enigmatica sentenza con cui termina il libro biblico di Daniele: «Alla fine dei tempi i malvagi sempre più faranno del male, ma gli intelligenti capiranno». Vedi anche, nella mia traduzione da Kavafis, edita da Adelphi, L’intervento degli Dei eCome finirà , e anche I Sapienti . Dal momento che tutto quel che di greco è pensiero dà tradizionalmente nel tragico, quei tre brevi poemi mostrano come un agitarsi di marionette a filo tutto quel che avviene o avverrà sulla scena umana. I sacerdoti Maya non sono oracoli, non fanno profezie: calcolano, con i loro strumenti e una mente agli antipodi dei nostri notiziari, successioni di eventi nel tempo. Sono appassionati del calendario, in un certo senso sfogliano calendari letti da loro nei movimenti celesti, base dappertutto di ogni scienza e di ogni rivelazione.
Non c’è vero pensatore che non veda, in atto fin dalle rivoluzioni messianiche d’America e Francia del XVIII, una enormità di rivolgimenti fra terra e cosmo. Tutto il secolo passato è nel segno di un cambiamento che via via si manifesta impossibile da sopportare. La fine di un mondo e il suo precipitare l’hanno significata, con un segnale travolgente, scomparendo, le Torri Gemelle. Gli eventi climatici e l’accecamento senza uno spiraglio di resipiscenza che ci spinge ad alterare sempre più il rapporto con la natura, hanno come traguardo la fine, abbastanza a breve termine, dell’abitabilità degli insediamenti umani. Se mi assicurassero che ci sarebbe, in questa corsa al disastro, a partire dal 21 dicembre, anziché un acceleramento una tregua, un incatenarsi di fortunati ripensamenti destinali, benedirei tutte le remote letture sciamaniche del cielo compiute sotto le interminabili piogge yucateche. Ma il versetto di Daniele annuncia laconicamente che «gli intelligenti capiranno» il male fatto dai malvagi e forse il suo perché. È un annuncio di vittoria della mente che rasserena.
Messaggio urgente dal pianeta sazio d’uomo: - Dateci una speranza, anche se sono tutte esaurite. -