Michele Serra, la Repubblica 20/12/2012, 20 dicembre 2012
PRANZO DI NATALE
A Natale si dispiega, in tutta la sua ambivalenza, la potenza della famiglia, per metà accogliente per metà soffocante. Magnifica e nefasta al tempo stesso. Pubblicità mielose, con mesi di anticipo, ci preparano al difficile passaggio dentro quella strettoia annuale dove convergono, tutti insieme, gli affetti, le memorie comuni, gli obblighi, le inimicizie, le ipocrisie. Il piacere di ritrovarsi così come la dura sopportazione degli altri, in specie quegli estranei a noi prossimi solo per ragioni protocollari che sono (a volte) i parenti.
Il pranzo di Natale (in qualche parte d’Italia la cena della vigilia) è la scena madre di questa celebrazione. La tavola è sempre un altare, anche quando la si profana con i pasti brevi, distratti, disadorni della vita quotidiana. A Natale ritrova la sua fastosa pienezza, e per i nati in una religione che venera il pane e il vino come carne e sangue della divinità, l’imbandigione ha pur sempre qualcosa di sacro, un altar maggiore allestito in casa.
Si condivide il rito, da sempre, con quel significativo insieme di persone chiamato “famiglia”. Già nelle epoche precedenti, quando Madre Chiesa non aveva necessità di segnalare con angoscia le infinite devianze che attentano all’integrità della famiglia, integra la famiglia non era affatto. Matrimoni a volte consunti e solamente simulati per i figli, gelosie e rivalità tra le famiglie di provenienza («questo Natale si va da tua madre o dalla mia?»), amanti in dolente solitudine, cocenti incomprensioni o anche solo normali antipatie potevano rendere spinoso il pranzo di Natale di molte famiglie. Non solo il suo svolgimento, anche la precedente logistica, dove farlo, chi invitare e chi no, e di quale trascuratezza annosa (la vecchia zia? il fratello scapolo?) fare ammenda aggiungendo un posto a tavola.
Con l’avvento delle famiglie allargate il gioco si è fatto ancora più complicato. Non si tratta, come credono alcuni chierici e tutti i clericali, di famiglie “meno famiglie”. Al contrario, sono famiglie al cubo, iperfamiglie nelle quali l’emersione in piena luce di ciò che nella “tradizione” era sommerso ha reso palesi le fratture, ufficializzato i lividi, ma ovviamente senza cancellare il vissuto pregresso, né i figli dei matrimoni precedenti, né molti degli altri vincoli non deducibili dal conto complessivo della vita. Le famiglie allargate raramente tolgono. Quasi sempre aggiungono.
Una mia vecchia amica è felice di celebrare il Natale con una folla
impressionante di nuore, da quelle ufficialmente in carica alle ex dei suoi figli, e non è facile capire quanto di “modernista” e quanto di classicamente matriarcale ci sia in questo suo desiderio di avere, attorno alla tavola, affetti presenti e passati, tutti vidimati
dalla sua benevolenza. Più frequente è la lacerazione di ex mogli ed ex mariti che a Natale si disorientano non poco, come Magi senza cometa, e si dividono tra vecchie e nuove case nel tentativo (faticoso) di essere al tempo stesso divorziato e genitore; e magari genitore di figli di madri e padri differenti, che festeggiano il Natale sotto alberi distanti. Tentare a tutti i costi di riunirli? O evitare una promiscuità che può anche diventare la summa di tutte le ipocrisie? Accettare la con-fusione, in qualche modo benedirla e celebrarla? O impedire che diventi un mostro frastornante, che leva il fiato e la voglia?
C’è un faticosissimo combinato disposto, nelle famiglie allargate, tra il nuovo groviglio dei rapporti e la mancanza di cultura sociale in materia di divorzi, separazioni, nuove nozze, convivenze di fatto. Dopo tutto il divorzio è anche lui un rito, ma troppo recente, qui in Italia, per essere stato elaborato, accettato. Mancano un protocollo, un galateo, un’abitudine che sorreggano il Natale degli “allargati”, e in specie il pranzo, spesso apparecchiato da suocere offese e incredule di essere ex suocere, o da nonni spaesati dalla dislocazione dei nipoti in più case, specie il pranzo di Natale, dicevo, minaccia di essere una prova severissima.
Ognuno, ovviamente, si regola e si barcamena come può e come sa. La fuga ai Tropici, in ristrettissima
compagnia o perfino da soli, è una tentazione comprensibile. L’obbligatorietà del Natale è ciò che rischia di renderlo detestabile, mettendo a repentaglio perfino la sua commovente, semplice ragione sociale,
che è la Nascita, la venuta al mondo. Però poi, a ragionarci meglio, in questa promiscuità forzata; in questo ritrovarsi a tavola anche con chi, negli altri giorni dell’anno, non cercheresti come commensale; in questo fare buon viso anche tra ostili o tra indifferenti; c’è una lezione di tolleranza (o, se preferite un termine meno politico, di pazienza) che è giusto cogliere. In una società segnata dal narcisismo, dalla solitudine del digitante e del videodipendente, l’obbligo alla socialità, e a una socialità solenne come quella del Natale, non viene per nuocere. E in questo senso il pranzo di Natale è un pezzo del lungo e mai compiuto tirocinio che ognuno di noi deve compiere per smussare i propri spigoli, e sopportare meglio quelli altrui. Tradizionali o disarticolate che siano, le famiglie che il Natale raduna attorno alla stessa tavola e allo stesso cibo, si tratta pur sempre di fingere, o di credere veramente, che i vincoli familiari, parentali, filiali, coniugali siano così importanti, così indispensabili da meritare una sospensione del nostro egoismo. Scambiarsi un segno di pace è qualcosa di più, e di meglio, che essere lasciati in pace.