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 2012  dicembre 18 Martedì calendario

Per leggere i romanzi italiani basta il dizionario dei piccoli - La letteratura italiana si impoverisce? Il ro­manzo d’autore lan­gue? E la critica che fa? Tutte domande che posso­no innescare una lunga teoria di risposte

Per leggere i romanzi italiani basta il dizionario dei piccoli - La letteratura italiana si impoverisce? Il ro­manzo d’autore lan­gue? E la critica che fa? Tutte domande che posso­no innescare una lunga teoria di risposte. Spesso le più dispa­rate, anche se sempre bene ar­gomentate. Una cosa, però, è certa. La lingua dei romanzi si sta impoverendo. Ormai, du­rante la lettura dell’ultimo vin­citore del Campiello o dello Strega, è sufficiente tenere a portata di mano un dizionario per ragazzini delle elementari per soddisfare ogni curiosità. Per l’impoverimento lingui­stico vengono indicati, come cause, sempre gli stessi fattori: la scuola, il predominio dei nuo­vi media, la mancanza di lettu­ra durante gli anni di formazio­ne. Siamo andati quindi a verifi­care. Abbiamo preso un cam­pione di­ testi pubblicati negli ul­timi anni e abbiamo letto a cam­pione alcune pagine. Con risul­tati a volte sorprendenti, altre deludenti. Ma an­diamo per ordi­ne. Prima abbia­mo selezionato lo strumento di lavoro. Nel no­stro caso è Il mio primo diziona­rio curato per la Giunti junior da Roberto Mari. Uno strumento, come spiega la quarta di coperti­na, adatto a un pubblico di ra­gazzi compresi tra gli 8 e 11 anni. Poi abbiamo sele­zionato i roman­zi. Per la scelta ci siamo affidati al­la giuria del Pre­mio Strega. Tre tra gli ultimi vin­citori sono finiti sulla nostra scri­vania. Il metodo è presto spiega­to: abbiamo pre­so t­re pagine a ca­so di ogni roman­zo (una all’inizio del libro, una a metà e una verso la fine del testo) poi abbiamo rac­colto tutte le pa­role e controllato se erano pre­senti nel sopra citato diziona­rio. Le pagine campionate han­no dato il seguente verdetto: ne La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano (premio Stre­ga 2008) ci siamo trovati di fron­te a tre soli termini non presenti nel dizionario di base: «bom­betta » (pag. 31), «cellophan» e «boxer» a pagina 123 (ma nel di­zionario è presente la versione italianizzata «cellofan»). Pochi i termini «difficili» anche in Ca­os Calmo di Sandro Veronesi (premio Strega 2006): appena dieci. Tra questi (le pagine con­trollate sono state la 95, la 225 e la 375), però, ci sono tre parolac­ce e un termine straniero ( Ar­mageddon ). Qualche vocabolo più complesso in Edoardo Nesi che con Storia della mia gente ha ottenuto il riconoscimento nel 2011. Non sono alla portata dei bambini termini come «spartano», «malvestito», «dis­solvenza » a pagina 23 e «islan­dese » e «scollinare» a pagina 94. Singolare il caso di pagina 143 dove tutti i termini non tro­vati hanno però nel dizionario vocaboli con la stessa radice: «manifatturiera»(ma c’è mani­fattura), «miserande» (ma c’è miserevole), «incatenamento» (ma c’è incatenare), «sprezza­re » (ma c’è sprezzante), «rin­ghioso » (ringhiare) e «tomba­le » (tomba). Insomma siamo ben lontani dalla sintesi proposta da Toma­si di Lampedusa che divideva gli autori tra quelli che predili­gevano la «scrittura grassa» e quelli che si appassionavano al­la «scrittura magra». In sostan­za il Novecento è stato caratte­rizz­ato per buona parte dal mar­chio degli espressionisti da una parte e dai rondisti dall’altra. Dove, però, la lingua era parte integrante della poetica e in­scindibile dal discorso sullo sti­le autoriale. Un «solitario» co­me Giovannino Guareschi po­teva vantarsi di usare, per dar vi­ta alle storie di Peppone e Don Camillo, «appena duecento pa­role ». Sapendo bene che quella semplicità era frutto di una grande intelligenza linguisti­ca. «Usiamo una lingua priva di vera tradizione borghese e ro­manzesca - confessa lo scritto­re Francesco Pacifico sulle pagi­ne di Pubblico - e non sappia­mo mai davvero come inventar­ci l’italiano che ci serve per tene­re insieme la nonna abruzzese e gli studi umanistici, la lingua delle email, il “Sì” scritto senza accento sulla chat dello smar­tphone e una sintassi barocca e un dizionario infinito in cui la vera guerra tra alto e basso la fa chi usa “acciocché”o “sommo­vimenti carsici” contro chi usa “cioè” o “emozionale”». Insomma il problema non è solo socio-culturale ma anche stilistico. E un altro giovane pro­tagonista della scena lettera­ria, il critico Gabriele Pedullà, individua una serie di ragioni per spiegare questo scivola­mento verso il basso (almeno dal punto di vista lessicale e stili­stico). «Da qualche tempo- scri­ve Pedullà sulle pagine del Sole 24 Ore - l’affermazione che lo stile non ha alcuna importanza per giudicare del valore di un ro­manzo ri­corre sempre più spes­so nelle recensioni di critici au­torevoli. Lo afferma la celebre anglista a proposito dell’ulti­mo bestseller su commissione e lo ripete il giovane intellettua­le impegnato per parlare del gothic novel di un coetaneo. Ma si tratta, a ben vedere, di un atteggiamento più generale, quasi una vox populi : l’impres­sione che, nella ricezione di un libro, lo stile stia diventando semplicemente irrilevante». E altrettanto secondario è quindi il bisogno di un vasto vo­cabolario, aggiungeremmo noi. L’esperimento che abbia­mo presentato al­l’inizio l’abbia­mo ripetuto con altri titoli premia­ti dal gotha lette­rario con risulta­ti non lontani da quelli già regi­strati. Nelle tre pagine campio­nate di Stabat Mater ( con cui Ti­ziano Scarpa ha vinto lo Strega nel 2009) ci sono solo sei termini non presenti nel vocabolario di base, sei in quel­le del Premio Campiello Rosso­vermiglio (di Be­nedetta Cibra­rio) e tre in quel­le di Ultimo Pa­rallelo , che è val­so nel 2007 il pre­mio Viareggio a Filippo Tuena. L’unico a dare qualche grattaca­po a un potenzia­le lettore in erba è Alessandro Pi­perno. Dopo aver analizzato tre pagine di Inse­parabili (ultimo vincitore dello Strega) ci siamo trovati di fronte a ben 16 voca­boli non presenti nel diziona­rio di base. «La lingua - spiega il filologo Luigi Weber- ha perso carisma, non è più oggetto di amore, non è più palestra di lavoro e di gioco, non veicola più né sacro né eros. Passioni, interessi e pensieri, vengono simbolizzati altrove: nella vasta galassia del visivo (cinema prima, poi tele­visione e nuovi media, video­game compresi); e più ancora in quella capillare estetizzazio­ne dell’esperienza quotidiana che è tipica di una società domi­nata dal marketing».