Andrea Pasqualetto, Corriere della Sera 19/12/2012, 19 dicembre 2012
IL BIMBO CHE ARRIVA A VENEZIA DENTRO UNA VALIGIA
L’agente ha aperto la valigia e dentro c’erano due occhi spaventati. Quelli di Assim, cinque anni, un faccino scuro, in testa il groviglio nero della sua terra, l’Afghanistan. Era rannicchiato in sessanta centimetri per trenta e il suo petto si muoveva veloce come quello di un gatto che cerca la fuga. Non parlava, non piangeva, non tremava. Ma osservava con paura quell’uomo in divisa da finanziere che al porto di Venezia stava controllando i bagagli dei viaggiatori in arrivo da Patrasso, Grecia, scoprendo così il suo scomodo nascondiglio: un trolley portato da un adulto e bucherellato in un angolo perché potesse respirare. L’uomo, tratti da persiano, ha balbettato poche parole in italiano: «Sono il padre». Poi ci ha ripensato, scusandosi: «Zio». Infine, incalzato dai finanzieri, la versione considerata più attendibile: «Sono un amico di famiglia, abito in Italia e sono andato a prendere il bambino dai suoi genitori che erano in Grecia». Gli inquirenti non ci hanno pensato due volte: arresti domiciliari per l’uomo, Ali Shaker, afghano quarantenne disoccupato residente in Italia, regolare. L’accusa per lui è di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina aggravata dalle condizioni degradanti. Aggravata cioè dal trasporto di un bambino in una valigia. Quanto al piccolo Assim, ci ha pensato il magistrato per i minorenni di Venezia a tentare di risolvere temporaneamente il problema disponendo un affido provvisorio ai Servizi sociali del Comune che lo hanno inserito in una Comunità educativa, una sorta di famiglia allargata dove convivono otto persone fra bambini, adolescenti e uomini. «Ma in questi giorni sarà affidato a una coppia veneziana che si è offerta di accoglierlo, fino a che la magistratura non chiarirà la sua storia. Ci vorranno dei mesi», ha stimato Paola Sartori, responsabile del Servizio politiche cittadine per infanzia e adolescenza. C’è da capire esattamente quando e perché Assim sia finito in un trolley e dove fosse destinato. «Era diretto in Germania da alcuni parenti», ha garantito il «passeur» Shaker, che per dimostrare la bontà delle sue dichiarazioni ha portato ai finanzieri alcune foto dei genitori. «Il bimbo li ha riconosciuti», assicurano gli uomini della Guardia di Finanza per i quali sarà comunque necessario trovare conferme sui legami con i parenti «tedeschi» a cui sarebbe stato destinato.
In ogni caso, il suo è già stato un viaggio omerico. Partito chissà quanti mesi fa dagli altopiani afghani, ha percorso le pianure persiane, ha attraversato le montagne del Kurdistan fino ad arrivare alle coste del Mediterraneo. Molti baby profughi, più grandicelli di lui, l’hanno preceduto in questa impresa da 5-6-7mila chilometri che hanno affrontato e affrontano con mille mezzi di fortuna: a cavallo, in camion, in barca, a piedi. Fino al porto di Patrasso, dove cercano di infilarsi clandestinamente in qualche traghetto per l’Italia sbarcando spesso dove capita: Bari, Ancona, Trieste, Venezia, per poi riprendere la rotta terrestre. L’Italia è infatti un po’ l’ultima frontiera in vista del loro Eldorado, il Nord Europa, Scandinavia e Germania in particolare. Alcuni ce la fanno, altri si fermano prima, altri ancora muoiono. Come Zaher Rezai, il ragazzino afghano che giunto a Venezia cercò di evitare i controlli aggrappandosi come una scimmia alla pancia di un tir. Zaher scivolò e fu schiacciato dalle ruote del camion, rimanendo sull’asfalto della statale con in tasca un quaderno di poesie: «Tanto ho navigato, notte e giorno, sulla barca del tuo amore che, o riuscirò alla fine ad amarti, o morirò annegato». Nel frattempo Assim ha mosso i primi passi nello sconosciuto mondo italiano. Di lui si è scoperto che è di etnia hazara, che parla il dari, un dialetto persiano, che è un discolo incontrollabile e che qualcosa di duro deve riguardare la madre. «Non la nomina mai», riferisce Riccardo Sartorel, l’assistente sociale che ha in cura il bimbo. Ma sono molte le cose che tace e per chi lo frequenta potrebbe significare che sta obbedendo a qualche ordine impartito dai genitori. «Ma forse è solo troppo piccolo per parlare», semplifica l’assistente. Dal suo misterioso silenzio qualche parola è tuttavia trapelata: «Voglio papà» e «Germania». È vispo ma negli occhi, dicono, ci sono anche i tormenti del lungo viaggio.
Andrea Pasqualetto