Notizie tratte da: Antonio Polito # Contro i papà. Come noi italiani abbiamo rovinato i nostri figli # Rizzoli 2012., 18 dicembre 2012
Notizie tratte da: Antonio Polito, Contro i papà. Come noi italiani abbiamo rovinato i nostri figli, Rizzoli 2012
Notizie tratte da: Antonio Polito, Contro i papà. Come noi italiani abbiamo rovinato i nostri figli, Rizzoli 2012.
La percentuale di giovani che coabitano con i genitori - ha calcolato Nicola Persico – è quasi raddoppiata dal 1970 al 2000. E gli studi ci dicono che questo avviene non solo per necessità, per povertà, per mancanza di risorse economiche : infatti “i genitori con più alto reddito permanente hanno maggiore probabilità di avere i figli in casa. L’interpretazione che se ne può trarre è che noi genitori italiani vogliamo davvero avere i figli adulti in casa”. Tanto è vero che la stessa attitudine la si riscontra negli Stati Uniti nelle famiglie di italo-americani di seconda generazione, nelle quali la percentuale di convivenze genitori-figli è molto più alta della media. È un fatto culturale, dunque, prima ancora che sociale.
Così i nostri figli, poveretti, non hanno via d’uscita. Se anche volessero pazientemente aspettare la nostra morte naturale invece di liberarsi di noi con le loro mani, rischiano di diventare prima vecchi. Con papà che tolgono il disturbo oltre gli ottanta, gli eredi assomigliano sempre più a Carlo d’Inghilterra, una vita da successore perenne passata ad aspettare, con la prospettiva di arrivare al trono alla tenera età di settant’anni.
La nostra società è dunque invecchiata nelle speranze e nelle aspettative, prima ancora che nell’età anagrafica. Una società stagnante che risparmia molto e consuma poco perché è dominata da papà con figli a carico. Una società che è diventata conservatrice perché la sua idea di progresso è quella della generazione precedente. Una società che ha paura della meritocrazia perché non vuole che la competizione porti i figli lontano di casa. Dunque una società che promuove la mediocrità, confondendola con l’uguaglianza.
Mentre nell’Occidente la rivolta giovanile ha dato vita al movimento degli “indignados” che hanno occupato le piazze, qui da noi ha prodotto il più indigeno fenomeno (esiste davvero sulla Rete) degli “indivanados”, che cerca nelle trasmissioni televisive la soddisfazione al proprio senso di giustizia ferito: “Sono i rivoluzionari del sofà, la versione comoda, low cost e last minute degli indignados, società civile (di conseguenza indignata), certificata dall’essere pubblico dell’unica tv capace di rappresentare un modello”, come ha mirabilmente scritto Gianluca Nicoletti.
Tredici anni dopo il moto no global di Seattle, e undici anni dopo il moto e il morto di Genova, la Banca Mondiale ha accertato che la globalizzazione ha ridotto, non aumentato, la povertà assoluta (cioè chi vive con meno di 1,25 dollari al giorno) in ogni parte della Terra. È la prima volta che accade. Abbiamo raggiunto l’obiettivo dell’Onu di dimezzare la povertà cinque anni prima del previsto, e infatti è oggi la metà che nel 1990. A smentita di tante profezie, non sembra più la povertà il destino del mondo. Secondo i Global Trends 2030 (pubblicati dall’Institute for Security Studies di Parigi) al raggiungimento degli otto miliardi di esseri umani per la prima volta la middle class sarà maggioranza: 4,9 miliardi di persone.
Una delle più importanti caratteristiche culturali della Silicon Valley e una delle principali ragioni per cui tanta parte dell’innovazione mondiale continua ad arrivare da questa striscia di terra californiana lunga 90 chilometri, è proprio l’accettazione del rischio. Questo ha generato una florida attività di “venture capital” che riconosce che solo due, o al massimo tre investimenti su dieci produrranno un ritorno di capitale, ma quei due o tre saranno così grandi da giustificare il rischio. E se sostenere che investire sui neolaureati può essere una bella teoria, sappiamo che nella pratica questo significa andare inevitabilmente incontro a qualche fallimento”.
Una cosa così non ce l’ha nemmeno la Cina, come si può pretendere che ce l’abbia l’Italia? “Oggi in America il 40% del prodotto interno lordo deriva da aziende che non esistevano prima del 1980. Sono dati statistici sorprendenti. Ciò significa che ogni anno quasi seimila miliardi di Pil derivano da aziende che fino a poco tempo fa erano solo idee nella mente di qualche ambizioso imprenditore”
“Vito Lomele, pugliese trapiantato a Milano, ha convinto gli inglesi del gruppo editoriale Daily Mail che la sua società vale 60 milioni di euro. E che potrà competere per la leadership mondiale nel segmento del job recruiting sul web. Andrea Vaccari e Alberto Trenti, due ventottenni rispettivamente di Verona e di Vicenza, ex studenti del Politecnico di Milano, hanno convinto Mark Zuckerberg – il fondatore di Facebook – che valeva la pena rilevare la loro start up Glancee, sviluppata tra Chicago e San Francisco”
Prendiamo il caso di Massimo Zeviani, medico e ricercatore ormai ultracinquantenne. Ha lavorato trent’anni a Milano, all’Istituto Neurologico Besta, sulla disfunzione dei mitocondri. I suoi studi di neurologia hanno portato all’identificazione dei principali agenti patogeni e alla sperimentazione di nuove terapie. Ha pubblicato su “Nature” e “Science” e ha vinto il premio internazionale Brain. Tutto ciò che poteva dare al suo paese l’ha dato. Ma il suo Paese non gli ha dato una cattedra universitaria. E lui, spedendo un curriculum vitae e sostenendo un colloquio di un’ora con 15 scienziati e autorità britanniche, si è preso il posto a Cambridge occupato per 14 anni da un premio Nobel, John Walker, e andrà a dirigere la Mitochondrial Biology Unit di quell’ateneo. Che c’è di male? Le università italiane perderanno qualcosa, ma la scienza italiana ne guadagnerà, perché quel professore nei nostri atenei avrebbe certamente potuto far meno che a Cambridge. È la legge della domanda e dell’offerta, che vale anche nel settore della materia grigia. Siccome non possiamo davvero sostenere che un danno alla scienza possa trasformarsi in un beneficio per l’Italia, bisognerebbe dire: grazie al cielo il professor Zeviani se ne è andato.
Non è dunque un caso se Almalaurea, il consorzio di 64 università italiane che dispone della più grande banca dati dei nostri laureati, abbia di recente offerto per la prima volta i suoi file a costo zero alle imprese tedesche che intendono assumere i nostri diplomati.
Ma pur senza ricorrere a complicati ragionamenti economici, è evidente che molto spesso la fuga dei cervelli serve intanto a rivelare dei cervelli, i quali potrebbero invece rimanere nascosti e non sbocciare affatto in un sistema universitario come quello italiano, renitente all’innovazione e facile al nepotismo.
Cedere i propri giovani a Paesi con un tasso di crescita e di occupazione più alto presenta sicuramente degli svantaggi. Se si trattasse di ingegneri, per esempio, e se fossero ingegneri formati in una buona università, si calcola che la loro formazione costi 60mila euro alla comunità di origine, mentre ne godrà gratis la nazione che li ospita. Ma il prezzo pagato potrebbe servire a scongiurare uno sgradevole effetto economico di cui ha parlato di recente l’Economist e che in inglese si chiama hysteresis. Prende il nome da un fenomeno fisico: un sistema dipende non solo dall’ambiente in cui si trova, ma anche da quello in cui si trovava precedentemente. In economia si riferisce alla possibilità che periodi di alta disoccupazione tendano ad accrescere la soglia di disoccupazione sotto la quale, quando c’è la ripresa, riparte l’inflazione. In sostanza vuol dire che la disoccupazione di breve durata che si verifica durante una recessione può avere conseguenze di lungo termine. Per esempio, si può verificare empiricamente che il livello di disoccupazione strutturale, cioè abituale, di un Paese ha una relazione con il numero e la durata delle sue recessioni passate. Pur trattandosi di un processo complesso, una spiegazione plausibile sta nella perdita di competenze professionali e nel progressivo scoraggiamento nella ricerca del lavoro di chi resta troppo a lungo senza un’occupazione.
Di conseguenza, ragiona l’Economist, i laureati italiani che fossero occupati in Germania possono arrecare benefici non solo, come è ovvio, all’economia tedesca – e a se stessi ovviamente, che avrebbero un lavoro – ma anche alla nostra economia. Nel breve periodo tolgono pressione dai nostri conti pubblici, perché non dobbiamo mantenerli direttamente con benefit o indirettamente con altra spesa sociale. E nel lungo periodo sono una riserva di forza lavoro qualificata che può sempre essere riattivata quando lo choc culturale, o il mutare della congiuntura o semplicemente la nostalgia di casa li riportasse indietro. Ciò che viene chiamata “fuga dei cervelli” potrebbe invece essere una situazione win-win, in cui cioè tutti guadagnano qualcosa. Del resto è esattamente quello che già hanno fatto, secondo una ricerca del Cnel, diecimila giovani professionisti italiani tra il 1997 e il 2010. Sono medici innanzitutto, ma anche insegnanti delle scuole superiori, e in misura minore avvocati e architetti; andati a lavorare e a vivere soprattutto in Gran Bretagna, in Svizzera e in Germania. Lavoratori altamente qualificati che emigrano per trovare un lavoro, o delle soddisfazioni lavorative, che in Italia non trovano. Mentre da noi arrivano professionisti di qualifica più bassa, soprattutto infermieri, dalla Romania, dalla Spagna e perfino dalla Germania. È così che funzionano le aree di libero scambio, dove circolano cioè liberamente le merci, i capitali e le persone, e la moneta è unica.
Leggiamo ancora Einaudi: “I milioni di baccellieri e di masters i quali escono dagli istituti universitari americani, sanno che il diploma non dà diritto a nulla. È bene possederlo, perché non si è mai sentito dire che sapere qualcosa sia cagion di danno, e nessuno ha mai sostenuto la tesi che sia migliore una popolazione di analfabeti piuttosto che una popolazione di uomini e donne meglio istruiti, molto o poco, e, anche se è poco, sempre meglio di niente. In me è sempre vivo il ricordo del 1926 quando, per invito di un noto economista, visitai un suo podere in uno stato del centro. Nella stalla, il vaccaro mungeva la mucca. Il collega, dopo averlo presentato, aggiunse: “Questi è un diplomato della mia università!”. Come costui, nove decimi dei diplomati americani non sognano neppure di fare gli intellettuali solo perché hanno frequentato un’università e in essa si sono diplomati”.
I tempi, dagli anni Venti del Novecento ad oggi, sono cambiati. Oggi è forse improbabile persino in America trovare un laureato a mungere le vacche. Ma è ancora vera l’osservazione che ne traeva Einaudi: la laurea non dà diritto al lavoro intellettuale prescelto. È solo la qualità della sua formazione, ottenuta negli anni dell’università, che può realizzare il suo progetto di vita. Einaudi suggeriva un sistema che ancora oggi sarebbe validissimo per mostrare nella pratica ai giovani e ai loro ambiziosi genitori questa verità: “Se il professionista avvocato, ingegnere, medico, geometra, ragioniere dovesse sulle buste, sulla carta da lettere, sulle notule delle parcelle ai clienti, sulle targhette apposte al portone di casa e all’uscio dell’ufficio, apporre dopo l’indicazione del proprio nome e cognome, quella del diploma (Dottore in medicina, in giurisprudenza), dell’anno della sua consecuzione e dell’università od istituto in cui il diploma fu rilasciato, qualche utile risultato parrebbe sicuro. In primo luogo, clienti i quali hanno perso una causa difesa dal patrono laureato a “Manica larga” o sono stati male curati da un medico uscito da “Lode per tutti”, comincerebbero a sospettare della bontà dell’insegnamento fornito da quelle università e se l’esperienza si ripetesse l’università sarebbe screditata. L’effetto necessario sarebbe, in secondo luogo, la rivalità delle università e delle scuole, invece che nel largheggiare, nell’essere severi nella concessione dei diplomi; e i giovani valorosi e studiosi preferirebbero di frequentare le università reputate per la loro severità. Si opererebbe una selezione spontanea fra gli stabilimenti, le cui iniziali apposte al nome e cognome del professionista lo accreditano e giustificano onorari più elevati, e quelli le cui iniziali segnalano che il diplomato è di qualità inferiore”.
Almeno sulla porta degli studi dei dentisti laureatisi in Romania, questa innovazione sarebbe sacrosanta e urgente. Oppure si potrebbe mettere in pratica il suggerimento avanzato più di recente da Federico Fubini: pubblicare sui siti delle università i redditi degli ex allievi a due e a cinque anni dalla laurea, così tutti potrebbero farsi un’idea del fatto che gli atenei non sono tutti uguali e non garantiscono gli stessi risultati (tra l’altro sarebbe possibile perché - come ha notato Alessandro Figà Talamanca - a partire dall’anno accademico 2004-2005 il ministero dell’Istruzione dispone di un’”anagrafe degli studenti” con tanto di codice fiscale per ognuno di essi). Invece perfino il governo Monti si è fermato di fronte al proposito di abolire il valore legale dei titoli di studio o anche solo di ridurne l’apparente e truffaldino egualitarismo. Al posto della riforma, ha avviato un referendum on-line. Cui hanno partecipato tutti coloro, studenti, professori, presidi, rettori e genitori, ai quali l’attuale sistema va benissimo perché dispensa stipendi, onori, diplomi e illusioni. Nessuna meraviglia, dunque, che si sia concluso con la percentuale bulgara, anzi romena, del 75% a favore del mantenimento del valore legale del titolo di studio. E così la predica di Einaudi resterà inutile, e i nostri laureati resteranno disoccupati.
Due anni fa è stato sospeso il rettore dell’università Spiru Haret di Bucarest, dove si producevano direttamente lauree false, e si è venuto a sapere di un italiano che è uscito dall’ateneo di Oradea con una laurea in “medicina naturopatica”, specialità che, purtroppo per lui, nemmeno in quel Bengodi dei diplomi esiste. Dell’ispezione in quella stessa università furono vittime anche 44 italiani tra i quali, secondo Panorama, un illustre figlio di, Gioacchino Paolo Ligresti.
Ricordate Timisoara, la città dove cominciò la rivoluzione contro il dittatore Ceausescu e che diede vita alla nuova Romania, non più comunista ma comunitaria? Bene, proprio nei pressi, ad appena 60 chilometri di distanza, c’è oggi uno dei nuovi eldoradi dei giovani italiani in cerca di un titolo di studio che abbia valore legale: l’università privata Vasile Goldis, ad Arad. Non sarà la Bocconi, ma come fabbrica di diplomi per medici e dentisti è molto efficiente. Nell’ultimo anno, su 1122 iscritti 208 erano italiani. Negli ultimi sei anni l’ateneo ha laureato la bellezza di mille dottori in medicina e odontoiatria italiani, quasi tutti provenienti dal sud del nostro Paese, tutta gente che evidentemente non era riuscita a superare il test-lotteria del numero chiuso nelle nostre facoltà o vi si era poi smarrita. E non c’è solo Arad. Oggi dovrebbero essere almeno cinquemila gli italiani che stanno studiando nelle università private romene, la metà di loro in cerca di una laurea in medicina “generale” o “dentaria”.
Immagino che i loro genitori saranno contenti. La spesa non è elevatissima, la retta d’iscrizione è appena mille euro l’anno, con altri tremila euro a Timosara ci si vive per un anno più che dignitosamente, e ovviamente la frequenza non è obbligatoria. Alla fine del corso, il coronamento del sogno: regalare ai figli un diploma spendibile in tutta Europa, nella speranza che quel pezzo di carta si trasformi in un reddito soddisfacente e duraturo.
Alla Bocconi il rapporto geografico si inverte. Il 63% di chi si presenta ai test di ammissione proviene da regioni diverse dalla Lombardia. E, secondo Alesina e Ichino, “i dati dicono che gli studenti che si iscrivono da più lontano, in particolare dal Sud, sono quelli che hanno una performance universitaria mediamente migliore”. Alla Bocconi studiare costa, e vivere fuori sede costa: dunque l’incentivo a far bene e a far presto è molto forte. Nell’università sotto casa l’incentivo è a far tardi e male, perché le tasse sono basse, la casa dei genitori è gratis e il welfare domestico funziona che è una bellezza. Nessuna meraviglia che l’80% dei laureati italiani ottenga il diploma “fuori corso”, e che in un qualsiasi anno accademico il numero dei “fuori corso” arrivi al 40% del totale.
Negli Usa avere il padre laureato invece che diplomato aumenta di 6 volte la probabilità di laurearsi. In Italia la laurea del padre aumenta di ben 25 volte questa probabilità. Le stime statistiche suggeriscono che in Italia avere genitori appartenenti alla metà superiore della fascia di distribuzione del reddito è il fatto più importante per incrementare la probabilità che i figli, una volta adulti, siano anche loro nella metà più alta. Negli Stati Uniti, invece, il fattore più importante per raggiungere un livello analogo di benessere economico relativo è laurearsi. In altre parole, nascere in una famiglia ricca (rispetto a laurearsi) è più ‘utile’ in Italia che negli Stati Uniti”.
Ecco dunque un caso di scuola che spiega come si blocca l’ascensore sociale. Ecco il paradosso: un sistema egualitario di istruzione rafforza e radica l’ineguaglianza sociale. Ecco come i padri italiani si sono lasciati ingannare, pagando con le loro tasse un’università inutile per i loro figli.
risulta che l’80% degli studenti italiani sia iscritto all’università nella regione di residenza.
Tra i messaggi che ho ricevuto dopo il mio articolo sul Corriere, molti erano proprio di giovani così: “Da bocconiano a 22 anni sono andato a lavorare a Londra per non accettare compromessi, ho iniziato a fare il cameriere e portando i giornali porta a porta: in cinque anni ero a capo del marketing europeo di una grande multinazionale americana dove non ho dovuto leccare i piedi a nessuno. E come me c’erano centinaia di compagni di corso che si sono fatti il mazzo. In Bocconi si studiava duramente e si usciva preparati, e nessuno ci raccomandava. Firmato: il figlio di un barbiere e di un’operaia”. Oppure: “Ho 21 anni, faccio la Bocconi e sono al terzo anno in pari con gli esami. Ho scelto un corso tutto in inglese, esami compresi. Ho una media del 28,5. Maturità scientifica con doppia lingua straniera. Questa è la mia situazione accademica. Tuttavia mi è stato possibile fare tutto ciò solo grazie a innumerevoli sforzi. Non venendo da una famiglia agiata ma con grande senso dell’onore e del lavoro ho iniziato a lavorare a 17 anni, mentre ero in quarta liceo, tutti i fine settimana come cameriere, durante la settimana dò lezioni a studenti e in estate faccio il giardiniere, in più traduco articoli dall’inglese all’italiano, nonostante ciò mi è stato possibile prendere 100 alla maturità nel liceo più difficile della mia provincia (Brescia, non Caltanissetta), essere ammesso alla Bocconi, mantenere la media e farmi un exchange in Asia. Tutto tassativamente pagato dalle mie tasche, non dai miei genitori. Ho avuto borse di studio, ma siccome molti fanno i furbi denunciando redditi più bassi, ho avuto solo l’esenzione dalla retta e non i soldi per mantenermi agli studi”
In Italia quasi cinque giovani su dieci, compresi in un’età tra i 25 e i 34 anni, vivono con mamma e papà. E quasi la metà delle giovani coppie sposate abita nel raggio di un chilometro dalla casa dei genitori di uno dei due coniugi.
se il lavoro bisogna cercarselo, allora bisogna cercarselo lì dove si trova. E ci sono molte occasioni di lavoro che nessuno sfrutta. Sempre Ichino ha calcolato, usando il censimento svolto da Unioncamere nel 2011, che risultano 117.000 posizioni di lavoro disponibili, sparse in tutte le regioni d’Italia, distribuite in tutti i settori e tra tutti i livelli professionali, che sono rimaste vuote perché nessuno se l’è prese. Secondo gli esperti, gli skill shortage effettivi (cioè i casi in cui serve una figura professionale che non si trova) sarebbero in realtà intorno al mezzo milione. Uno studio della Cgia di Mestre (Associazione artigiani piccole imprese) sostiene inoltre che nei prossimi otto anni si cercheranno senza successo circa centomila posti di collaboratori domestici e addetti alla pulizia, cinquantamila autisti di bus o camion, altrettanti operai agricoli, e così via. Spesso si tratta di lavori che non si trovano perché non si sa dove sono, perché sono lontani dal luogo dove si cercano, perché non sono i lavori cui i nostri figli aspirerebbero, o anche più semplicemente perché la convenienza di restarsene a casa, in famiglia, assistiti, al calduccio del welfare domestico, aspettando che spunti un impiego più vicino, più stabile, più comodo, è molto forte. E anche questi sono casi in cui la famiglia finisce per essere indirettamente un freno all’occupazione.
Una ricerca di Pietro Ichino, pubblicata sul Corriere della Sera, ha svelato qualche fatto quantomeno sorprendente. Il primo: nelle sole nove regioni che sono state in grado di fornire questo dato, il numero di contratti di lavoro dipendente stipulati nel corso del 2010 è stato alto: “Nell’occhio del ciclone della crisi più grave dell’ultimo secolo sono stati registrati in un anno circa quattro milioni di contratti di lavoro. Vero è che, se si disaggregano questi dati, ne risulta solo un milione circa di contratti a tempo indeterminato. Ma anche solo un milione è un bel numero, se si considera che nello stesso periodo le persone rimaste senza il posto per crisi occupazionali aziendali si misurano con uno o due zeri di meno. Per esempio: in Veneto, tra l’ottobre 2010 e il settembre 2011, gli assunti a tempo indeterminato sono stati 145.600. Nel corso del 2011 coloro che hanno perso il posto per licenziamenti collettivi sono stati 11.807, e per licenziamenti individuali (quasi tutti in imprese sotto i 16 dipendenti) 22.671. Dunque: nella stessa regione, pur in periodo di grave crisi, per ogni licenziato sono stati stipulati quattro contratti a tempo indeterminato”.
Ha scritto Dario Di Vico: “I giovani italiani sono i più restii a muoversi, solo il 38 per cento dei giovani tra i 15 e i 34 anni è disposto a farlo”, contro il 70% degli spagnoli, il 60% dei francesi, il 54% dei tedeschi (dati Eurobarometro). “Il confronto con i giovani cinesi che vivono in Italia, poi, è impietoso. I reclutatori di personale che li incontrano ne parlano come di persone che vivono con la valigia già pronta per trasferirsi là dove le opportunità si presentano”. D’altra parte, questo dovrebbe essere il vantaggio del mercato unico europeo: si va dove c’è il lavoro, visto che di solito non è il lavoro a venire da noi.
La seconda conseguenza sociale, quella iniqua, sta invece nel fatto che “chi appartiene a famiglie meglio connesse trova lavoro più facilmente e a condizioni migliori”. Anzi, poiché la percentuale di giovani che sfruttano le relazioni familiari è in continua crescita (era il 24,4% prima del ’97 e ora è il 38,1%), il risultato è che è in continua diminuzione il numero di occasioni di lavoro disponibili per coloro le cui famiglie non hanno questa capacità.
Un’accurata ricerca dell’Isfol, citata su lavoce.info da Emiliano Mandrone, ci dice infatti che il 38% dei giovani in Italia trova lavoro attraverso i canali familiari: parenti, amici, conoscenti, raccomandazioni. Se pensate che i centri per l’impiego pubblici, cioè il canale normale nel Nord Europa per la ricerca attiva del lavoro, sistemano in Italia appena il 2,7% dei giovani, o che le società private di ricerca e selezione del personale danno lavoro solo all’1,7%, o che i concorsi pubblici, vera e propria manna delle generazioni precedenti, ora assorbono appena il 5,9% dell’occupazione, oppure infine che solo un misero 5,7% di giovani avvia una attività in proprio per entrare nel mondo della produzione, avete capito l’enormità del problema. La percentuale dei giovani che trovano lavoro cercandoselo invece personalmente, con auto-candidature, è del 23,8%, significativamente molto simile a quel 25% di “attivi”: uno su quattro.
Luca Ricolfi ha escogitato anche una formula matematica che spiega molto bene le ragioni di questo fenomeno così italiano. Il numero di Neet è infatti legato a un indice che lui ha definito “l’eredità attesa”. Più un giovane può contare su quello che gli lascerà il padre, meno si darà da fare per lavorare. L’eredità attesa è la combinazione di due fattori: il patrimonio accumulato dalla famiglia, che in Italia è molto elevato grazie alla nostra proverbiale attitudine al risparmio; e il tasso di natalità, cioè il numero di figli tra i quali andrà diviso, che in Italia è molto basso.
Dobbiamo dedurne che le cose vanno bene e possiamo stare tranquilli, visto che i disoccupati sono in numero notevolmente inferiore rispetto a quanto si scrive? Al contrario. Questo modo di ragionare, ancorato ai dati e alla realtà, ci dice in realtà che le cose stanno molto peggio, ma per cause profondamente diverse. Lasciamo la parola a Ricolfi: “L’anomalia dell’Italia non è che i suoi giovani non trovano lavoro, ma il fatto che non lo cercano… Nel confronto internazionale i nostri giovani si distaccano da quelli della maggior parte dei paesi avanzati non certo perché più colpiti dalla tragedia della disoccupazione, ma precisamente per la ragione opposta: perché ritardano enormemente il loro ingresso nel mercato del lavoro. Nei paesi normali ci si laurea intorno ai 22-23 anni, e si comincia a lavorare relativamente presto, spesso contribuendo al bilancio familiare e alle spese dell’istruzione, che non sono basse come da noi. In Italia ci si laurea tardi, spesso in prossimità dei trent’anni (l’età media dei nostri laureati è 27 anni, n.d.a.), e si comincia la ricerca di un lavoro a un’età in cui negli altri Paesi si è accumulata una cospicua esperienza professionale. E quel che è ancora più drammatico è che, nonostante la loro relativa assenza dal mercato del lavoro, i giovani italiani sono molto indietro nei livelli di apprendimento già a 15 anni (vedi i risultati dei test PISA), e hanno maggiori difficoltà a conseguire una laurea per quanto a lungo ci provino. E infatti la gioventù italiana un primato ce l’ha: è quello del numero di giovani perfettamente inattivi, in quanto non lavorano, né studiano, né stanno apprendendo un mestiere: sono i cosiddetti Neet, Not in Education, Employment or Training”.
Luca Ricolfi, uno studioso convinto che i numeri e i fatti contino più delle opinioni e dei miti (molto solitario, dunque, in Italia), ha smontato mirabilmente questa retorica. I giovani disoccupati, ha scritto su La Stampa, non sono affatto 1 su 3, ma 1 su 14; non il 33% come scrivono i giornali, ma il 7,1% della popolazione nella fascia di età tra i 15 e i 24 anni. Come si arriva a questa conclusione? Facile. Quando si calcola la disoccupazione giovanile, infatti, non si prende come base il totale dei giovani, ma solo il totale dei giovani cosiddetti “attivi” sul mercato del lavoro, e cioè chi già lavora o sta cercando un lavoro. E gli “attivi” in Italia sono appena un quarto del totale dei giovani. Fate conto che in paesi come la Germania o la Gran Bretagna gli “attivi” sono il doppio. Quindi, quando leggete sui giornali o sentite alla televisione che in Italia il 33% dei giovani è disoccupato, dovete pensare che stanno parlando del 33% del 25% della popolazione in quella fascia d’età. E che dunque complessivamente i giovani disoccupati, il 7,1% dell’intera platea generazionale, sono pressappoco lo stesso numero di quanti erano prima della Grande Crisi (2006-2007), molti meno che negli anni Novanta e inizio del Duemila, cioè prima delle le
ggi Treu e Biagi che hanno introdotto flessibilità nel mercato del lavoro, e meno che in molti altri Paesi europei (nel frattempo, causa la recessione, le percentuali sono aumentate, i giovani disoccupati hanno raggiunto il 36% della popolazione attiva, ma la sostanza del discorso è identica).
Dicono le statistiche che su due milioni di padri separati il 9% è costretto a vivere con un budget inferiore ai 300 euro al mese. A Roma ci sarebbero 90mila nuovi “barboni” e a Milano sarebbero 50mila. Il fenomeno è diventato così di massa, e provoca un tale allarme sociale, che le grandi città offrono ormai dei condomini ai papà separati in cui possano abitare per un po’ a basso costo e dove possano ospitare i figli nei fine settimana. In Italia, scrivono i giornali, ci sarebbe infatti un milione di padri che possono vedere i figli solo un pomeriggio alla settimana perché non hanno un letto dove ospitarli di notte. E bisogna ringraziare una legge del 2006 se le cose sono lievemente migliorate. Prima di allora, infatti, quasi mai i giudici ricorrevano all’affido congiunto dei minori, motivandolo con la permanente conflittualità tra i genitori, o con la distanza tra le abitazioni, o con l’età dei figli. E questo era fonte di una discriminazione costante nei confronti dei padri, quasi sempre soccombenti nella scelta del genitore cui affidare i minori. Basti pensare che nel 2005, alla vigilia della riforma, gli affidi congiunti erano appena il 15% del totale, quelli ai padri un misero 3,4%, e la parte del leone era l’affido alla madre, oltre l’80%. Oggi invece (dati del 2009), gli affidi congiunti sono ormai l’86%, e quelli alle madri soltanto il 12,2%. Ciononostante permangono interpretazioni discutibili della legge da parte dei giudici, e in Parlamento si stanno studiando nuove modifiche legislative tra le quali la fissazione del domicilio del minore presso entrambi i genitori. Le associazioni di padri separati, ormai una settantina, fanno sentire con sempre più forza la loro voce, e il fondatore di una di queste, il pediatra Vittorio Vezzetti, ne è diventato un araldo di successo con il suo libro intitolato Daddy’s Pride. Perfino la tv si è lanciata sul fenomeno, producendo sul tema una fiction di un certo successo, interpretata da Beppe Fiorello.
E che di crisi della famiglia si tratti, è fuor di dubbio. I matrimoni erano 290mila l’anno nel ‘95, e sono scesi a 230mila nel 2009. Le separazioni erano 52mila nel ‘95, e ora sono 86mila, il 63% in più. Per non parlare dei divorzi, praticamente raddoppiati dai 27mila del ’95 ai 54mila del 2009 (dati Istat). Nell’arco di tempo considerato, tre lustri, i matrimoni finiti male sono passati da 158 ogni mille a 296 ogni mille. Praticamente un’ecatombe. (pagina 82)
Bisogna tener presente che le retribuzioni d’ingresso dei laureati, in Italia abbastanza basse all’inizio (23.500 euro annue contro i 35.000 della Francia e i 36.000 della Gran Bretagna) hanno in media una crescita del 25% nei primi tre anni e del 40% nei primi cinque, mentre la progressione dei diplomati è appena del 12% nei primi tre anni e del 27% nei primi cinque (fonte Istat). Se sarò costretto a scegliere, come nel film The descendants, io non avrò dubbi: meglio l’istruzione del mattone.
“Dai ai tuoi figli abbastanza perché facciano qualcosa, ma non abbastanza perché non facciano niente” (George Clooney, The Descendants).
Bisogna dire, però, che di bamboccioni che non se ne vanno da casa e restano a vivere con i genitori ne esistono anche in zoologia: ci sono specie in cui questa abitudine accresce anzi il successo evolutivo attraverso un comportamento cooperativo, ricorrendo cioè a forme di altruismo di gruppo invece che all’egoismo dei geni. È il caso dell’uccello australiano denominato “garrulo corona grigia”, che appartiene all’ordine dei passeri. I giovani di questa specie non si comportano infatti come tutti gli altri ragazzi-uccello, cercandosi presto una compagna e lottando tra di loro per segnare il proprio territorio. No, i “garruli corona grigia” sono anzi felici di restarsene a casa, nel nido dei genitori. E, cosa ancora più strana, aiutano perfino la mamma a covare le nuove uova e a raccogliere cibo per la famiglia. Questo comportamento è noto come “allevamento cooperativo”, e sembra smentire un aspetto cruciale della teoria di Darwin. Tant’è che gli scienziati ne hanno cercato la causa in qualche vantaggio evoluzionistico nascosto. Nel caso di altri uccelli simili l’hanno trovata nella carenza di territorio sufficiente per farsi il proprio nido. Il che potrebbe spiegare con le ragioni del mercato immobiliare anche i bamboccioni umani. Purché almeno anche loro dessero una mano a procacciare il pasto quotidiano della famiglia.
Quando ci si chiede infatti come mai l’Italia non abbia i suoi Steve Jobs, gli innovatori che rompono gli schemi e scavalcano la propria epoca, bisognerebbe chiedersi anche se non sia per la scarsità di scuole montessoriane. E non è un’esagerazione. Una volta Barbara Walters, la nota conduttrice televisiva americana, chiese agli inventori di Google, Sergei Brin e Larry Page, se fosse stato importante per il loro successo aver studiato nell’ambiente creativo di Stanford, la celebre università californiana: loro risposero che era stato più determinante l’asilo, che per entrambi era stato di tipo montessoriano. Lo ha ricordato in un articolo Roberto Bonzio, in occasione dei sessant’anni della morte della grande scienziata. Aggiungendo che nella lista degli alunni illustri del metodo montessoriano ci sono molte star della New Economy come Jeff Bezos, il fondatore di Amazon, Jimmy Wales, ideatore di Wikipedia, e Will Wright, l’autore del best seller dei videogames, The Sims. Non a caso in un blog del Wall Street Journal questa è stata definita la Montessori Mafia, “non in termini spregiativi ma per riconoscere piuttosto l’esistenza di una élite intellettuale e imprenditoriale che, forgiata da quel metodo didattico, sta plasmando il nostro futuro”
Si capisce quale livello patologico abbia raggiunto lo spaesamento dei genitori della nostra epoca quando si apprende che Osama Bin Laden ha lasciato ai figli una sorta di testamento orale in cui li invita a mettere la testa a posto, a fare i bravi ragazzi, a lasciar perdere il Grande Satana e ad andare negli Usa per studiare e fare carriera; e soprattutto a non seguire, ripeto, non seguire le orme del padre. Oppure quando si legge che a Seul i padri coreani workaholic, dopo tredici ore di lavoro, affollano la scuola serale Duranno Father School dove apprendono a piangere, a esternare sentimenti, ad abbracciare i figli, tutte cose che il genitore tradizionale asiatico deve imparare a fare per seguire il nuovo credo pedagogico che è arrivato, insieme al benessere e al capitalismo, dall’Occidente.
Nel 1780 il prefetto di Parigi segnalava l’emergenza sociale dell’abbandono di massa dei neonati francesi: su ventunomila bambini che nascevano ogni anno nella capitale solo mille erano allattati dalle madri naturali, gli altri venivano dati a balia, anche per anni. Un caso estremo e unico, denominato “il caso delle francesi”, che è stato raccontato dalla filosofa Elisabeth Badinter trent’anni fa in un libro che era un grido di rivolta contro il mito della maternità, L’amore in più. Insieme al suo seguito, uscito nel 2012 con il titolo Il conflitto, quel libro è un tentativo di dimostrazione storica, ispirato al femminismo della de Beauvoir, del fatto che non bastano ossitocina e prolattina, “gli ormoni del maternage”, a realizzare il miracolo della trasformazione in mamma. Che molto conta la cultura, tant’è vero che l’abitudine del baliatico in Francia risale addirittura al tredicesimo secolo, quando si aprì la prima agenzia di collocamento di nutrici per famiglie aristocratiche, “e che solo con l’Emilio di Rousseau nasce poi l’idea della famiglia moderna fondata sull’amore materno”, come ha scritto Anais Ginori su Repubblica.
Quando ho cominciato a scrivere questo libro il modello di maggior successo era stato appena lanciato dal Wall Street Journal: la “mamma-tigre” di Amy Chua, una professoressa di legge a Yale di origine cinese che ha raccontato in un volume di terrificante (in tutti i sensi) successo che cosa era stata capace di pretendere e ottenere dalle due figlie. Una donna trapiantata nella permissiva e individualista America, ma ancora impregnata della tradizione confuciana e familista della sua cultura. “Uno dei miei più grandi timori – confessava nel libro – è il declino della famiglia. Un antico adagio cinese dice che la prosperità non arriva mai alla terza generazione. Beh, io non me ne starò a guardare”. Così la terza generazione di casa Chua se l’è vista veramente brutta. Ecco il decalogo della signora: “Alle mie figlie Sophia e Louisa non è mai stato permesso di: andare a dormire dalle amiche; andare a giocare dalle amiche; partecipare a una recita scolastica; lamentarsi di non poter partecipare a una recita scolastica; guardare la televisione o giocare con i videogiochi; scegliere le attività extrascolastiche; prendere un voto inferiore a 10; non essere la migliore in ogni materia tranne educazione fisica e recitazione; suonare uno strumento che non fosse il pianoforte o il violino; non suonare il pianoforte o il violino”. Istruttivo l’episodio raccontato nel libro del primo scontro tra la mamma-tigre e la figlia cucciola più ribelle, Louisa. Galvanizzata dal fatto che anche Beethoven era nato come lei nell’Anno della tigre, la signora tentò di far sedere al pianoforte la secondogenita ancor prima che fosse in età scolare. Di fronte alle rumorose proteste, “trascinai il diavoletto strepitante verso la porta sul retro e la spalancai. Era un gelido pomeriggio invernale a New Haven, nel Connecticut, ci saranno stati sei-sette gradi sotto zero, e il vento gelido ci sferzava il viso. Se non dai retta alla mamma, le dissi con un tono che non ammetteva repliche, allora non puoi stare in casa”. E la spinse fuori. A questo punto del libro, un genitore italiano di media intelligenza lascia perdere e passa ad altro. Non è roba che fa per noi.
forse sarà ancora una volta la tecnologia a risolvere il problema. Bill Gates, nell’ambito delle sue attività filantropiche, ha investito 335 milioni di dollari nel “New Teacher Project”, un tentativo di elevare la qualità dell’insegnamento. Sta sperimentando il funzionamento di un braccialetto elettronico che misura la risposta “galvanico-epidermica” dello studente alla lezione. Si vedrà insomma dalla luce che si accende sul braccialetto quanti sono concentrati e attenti, e quanti distratti e annoiati, e si potrà di conseguenza giudicare la bravura dell’insegnante. In Italia prevedo un’ondata di scioperi e di occupazioni contro il “Grande Fratello”, con conseguente e rapida messa al bando del progetto.
Del resto, si capisce bene perché questi test di valutazione siano risultati tanto indigesti a studenti, genitori e docenti. Hanno infatti scattato una fotografia molto cruda della qualità della scuola italiana che nessuno aveva voglia di mostrare. Basta leggere gli elaborati raccolti nell’anno scolastico 2009-2010 e il campione selezionato dagli esperti nel circa mezzo milione di studenti diplomati nell’estate del 2010. Vi si trovano perle del genere: “Leopardi è un poeta del primo Settecento”, “lanciarsi da un aerio”, “se gli Ufo non esistessero i nostri studi su di essi sarebbero vaghi”. E capolavori come questa frase, tratta da un tema dell’esame di maturità: “Nell’antichità, in molte grotte o caverne, erano presenti molti graffiti che rappresentavano la presenza degli alieni. Difficile pensare che le persone di quel tempo si inventassero delle fandonie solo per andare in televisione, come accade molto spesso al giorno d’oggi, anche perché non ne avevano il motivo”. Dove si vede che non solo i nostri figli non sanno scrivere (nel 78,5% dei casi c’era almeno un errore grave nell’area grammaticale, e gli strafalcioni di ortografia non si contano), ma quel che è peggio non sanno pensare, non sanno cioè organizzare le proprie idee, argomentarle e padroneggiare quel lessico astratto che nella lingua orale della vita di ogni giorno non usiamo. E pensare che il sindacato Cgil degli insegnanti si chiama Flc: Federazione dei Lavoratori della Conoscenza.
Un gruppo di ricercatori italiani ha di recente studiato a fondo quello che sembra essere un fenomeno tipico della scuola italiana: nel senso che da noi è ormai tollerato dagli insegnanti, riscuote l’ammirazione degli studenti, ed è stato del tutto condonato da parte dei genitori, i quali l’hanno escluso dal novero dei comportamenti antisociali che meritano la punizione dei figli. Mentre copiare a scuola è considerato negli Stati Uniti un comportamento grave innanzitutto da parte degli studenti, che temono possa distruggere il sistema meritocratico su cui si basa il successo in quella società, vanificando così il lavoro di chi si è applicato con serietà, sacrificio e cospicui investimenti per raggiungere un risultato.
In un saggio di qualche anno fa sul Mulino, Arturo Parisi raccontò la sua sorpresa nell’assistere a un test in una scuola americana durante il quale uno degli studenti si alzò e ad alta voce denunciò all’insegnante il compagno che copiava. Da noi, ad essere messo al bando dal gruppo dei coetanei sarebbe stato il denunciante: “sfigato”, ”secchione” e “lecchino”. Negli Stati Uniti è il contrario: “In Usa - raccontano due studiosi italiani in visita - se uno viene colto in fallo perché ha copiato senza citare la fonte corrono parole grosse come “plagio” e infrazione del “principio d’onore” (honor principle), e i compagni lo guardano con disprezzo”. Michele Boldrin, che insegna in un’università americana, ha raccontato sul suo sito noisefromamerika.org, in un articolo titolato Fare la spia è un dovere: “Qui si danno gli esami da fare a casa. Io lo faccio sempre per le classi del secondo anno del PhD ed anche in alcune classi undergraduate: mi aspetto che gli studenti rispettino l’honor code e che chi non lo fa venga denunciato dagli altri”. E quando non lo fanno, sono le autorità a intervenire con durezza. Di recente l‘università di Harvard ha messo sotto processo 125 studenti accusati di un “copia e incolla” in un test a casa del corso di “government”. Il fattaccio è stato definito “un tradimento intollerabile”. Mentre in Italia funziona così: il Consiglio di Stato ha dichiarato illegittima l’esclusione di una ragazza dagli esami di maturità nonostante fosse stata scoperta in flagrante mentre copiava da un telefono palmare. La giustizia amministrativa ha spiegato che l’autorità scolastica era stata troppo severa perché non aveva tenuto conto del suo “stato d’ansia”.
Il 90% dei figli tra i 18 e i 24 anni vive in Italia con i genitori, e quasi il 50% ci resta anche tra i 25 e i 34 anni (in Danimarca solo tre ragazzi su dieci, in Svezia solo quattro, in Finlandia solo otto, perfino nella mediterranea Spagna i “bamboccioni” sono meno che da noi, il 41%).