Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  dicembre 15 Sabato calendario

Paolo Villaggio, Dio e gli atti impuri


PRESTO AVRÀ OTTANT’ANNI. Ma vi assicuro che potrebbe compierne 30, così come 120. Del trentenne ha la passione, del centenario il delizioso vagabondaggio mentale. Passa con nonchalance da un carrarmato Sherman a Vittorio Gassman, da Tiberio a Fabrizio De André. Ascoltarlo è un incanto fatto di rapsodie e sghignazzi, di improvvise sfuriate e di battute folgoranti. Paolo Villaggio cominciai ad amarlo quand’ero bambino, piegato in due dalle risate davanti al crudele e sgangherato prestigiatore Kranz. Quello del "cammellino di peluche", roba da surrealismo assoluto, lui e Cochi e Renato, uno dei capolavori insuperati della tivù italiana. La trasmissione si chiamava Quelli della domenica (1968), ed era la prima avventura televisiva di Villaggio, il quale - tra un cabaret e l’altro, lanciato a Roma da Maurizio Costanzo - aveva già avuto il tempo di scrivere il testo di Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers e di esibirsi sulle navi di crociera della Costa con due strumentisti niente male: alla chitarra Fabrizio (De André) e al pianoforte Silvio (Berlusconi).
Ora siede alla scrivania, nella sua villa del quartiere Pinciano, a Roma. Sua moglie Maura è al piano di sopra, e non apparirà mai durante le tre ore che passiamo insieme. Ma sarà lei la presenza costante nel discorso sulla vita che Villaggio a suo modo fa, e sarà la voce all’altro capo dell’interfono quando le passa la chiamata del nipote ventenne che vive a Los Angeles. Il grande attore indossa, come gli capita da molto tempo, un caffetano nordafricano in cotone. Fuori diluvia, e lui telefona, scrive, risponde alle domande, si presta al gioco della memoria, e in tutto questo non ha freddo. È di buonumore. Forse lo è da quando è venuto al mondo, il 30 dicembre 1932. Parlare con Paolo Villaggio è un’esperienza teatrale: con lui non si chiacchiera, si dialoga, e i dialoghi spesso sembrano saltare fuori dai suoi libri o da un film dei Monty Python.
Andiamo con ordine: le sue origini.
Io sono ligure, ma ho tre quarti di sangue siciliano. Chi è del Sud è intelligente. Si vede che lei non è del Sud (lo dice con la voce di Kranz).
Sono di Palermo.
Allora saprà che il Sud è stato ai tempi della Magna Grecia il posto più bello del mondo, ora è solo un posto povero.
Mi sembra una semplificazione.
E saprà anche che Mao è stato mitizzato e che Dio non esiste. Quella di Dio è un’invenzione che comunque, in giovane era, mi ha terrorizzato. Ogni sera avevo paura di venire incenerito.
Perché?
Perché commettevo atti impuri. Immagino anche lei... Anzi, lei più di me.
Non so perché pensa queste cose. Invece mi interesserebbe sapere se ha mai detto in vita sua "ti amo".
Mai. Mi correggo: sto con mia moglie Maura dal 1953 e una volta glielo dissi. Lei mi pregò di non esagerare. E da allora non l’ho più detto.
Al telefono, quando prendevamo accordi, mi ha comunicato che voleva parlare solo dei ragazzi di oggi. Prego.
Li hanno chiamati "bamboccioni", forse offendendoli. Ma loro non sanno cos’è la guerra. Io purtroppo sì. È la cosa più stupida e terrificante che possa fare l’uomo. Io ho visto da bambino dodici persone fatte a pezzi da una bomba. Era una mattina e le forze anglo-americane spararono con i pezzi grandi contro la città (Genova, ndr). Un proiettile gigantesco si abbatté su alcune case a pochi metri dalla scuola dove andavamo io e mio fratello. Non dimentico quei corpi... Nella mia memoria c’è anche la giornata del 25 aprile 1945. Eravamo sfollati a Nervi, sapevamo che era successo qualcosa, sapevamo dei tedeschi in fuga. Poi per strada vedemmo la sagoma di un carrarmato Sherman. Era alto sei metri, più dell’arcangelo Gabriele; si fermò, e dalla torretta emerse un soldato di colore che ci mostrò le mani aperte, in segno di amicizia. Un mio amichetto disse: guardate, ha i palmi rosa! Non avevamo mai visto un negro. Lo chiamammo: signor Negro, signor Negro! Lui sorrideva e tirava pacchetti di sigarette a tutta la folla, a noi lanciò alcune bottigliette di Coca-Cola. Neanche quella avevamo mai visto prima.
Le piacque questo volto dell’America?
L’America è responsabile della volgarità nel mondo e dell’elevazione del denaro a religione.
Questo non le impedì di viverci.
Per sei anni, a Bel Air, Los Angeles. Anni meravigliosi. Costruii una villa, era il posto più bello del mondo. Uno dei miei due figli è nato lì, è cittadino | americano. Andavamo alle notti degli Oscar, frequentavamo le persone più interessanti...
Anni ’70. Aveva guadagnato bene.
Nella mia vita ho guadagnato molto. I libri di Fantozzi (che a gennaio saranno ripubblicati in trilogia da Rizzoli, ndr) hanno venduto milioni di copie.
Ha girato 74 film, il primo nel ’68. È stato diretto da Mario Monicelli, Federico Fellini, Marco Ferrera, Pupi Avati, Lina Wertmüller, Steno... Ma il grande successo popolare l’ha avuto con Luciano Salce e Neri Parenti: cioè, Fantozzi. Chi ricorda con più devozione?
Monicelli, il più geniale, autore di due capolavori: La grande guerra e I soliti ignoti. Di Fellini ricordo l’intelligenza, la dolcezza e la perfidia. Un giorno sul set di La voce della luna venne un regista americano che aveva appena vinto, credo, un Oscar. Federico fece finta di non accorgersi di lui. L’americano si tenne a 30 metri dal set. Poi, quando finimmo, Fellini gli andò incontro e fece una grande scena: ma come? Sei qui e non sei venuto subito da me? Il poveretto era in enorme soggezione.
Si può autodefinire?
Un ateo che vorrebbe credere, un libertario.
Lei è stato comunista e, poi, radicale. Pentito?
Comunista non lo sono mai stato. Radicale sì: venni anche eletto. E non ne sono per niente pentito.
Cosa le piace dell’Italia di oggi?
La voglia di cambiamento che c’è nei giovani, l’accettazione che questa è una società decadente.
Più che realtà mi sembrano suoi desideri.
Sì, spero che i giovani vogliano cambiare rendendosi conto che questa società è decadente.
Chi sono le sue persone preferite?
Posso dire anche i morti?
Certo.
Ugo Tognazzi, Vittorio Gassman, Federico Fellini, Gianmaria Volonté, Carmelo Bene, Fabrizio De André.
Che cosa sta leggendo?
Rileggo. La metamorfosi di Franz Kafka, Tristi tropici di Claude Lévi-Strauss, Funes o della memoria di Jorge Luis Borges. Fëdor Dostoevskij: tutto.
C’è un libro che non ha finito?
Sì: Cent’anni di solitudine.
Perché?
Non lo so, l’inizio...
Cosa guarda in televisione?
Rai Storia, i programmi sugli animali, i Tg e i film su Sky.
Lo sport?
Un tempo seguivo tutto il calcio. Oggi solo Barcellona e Real Madrid. Ma la mia preferita è la boxe, compagna delle notti insonni.
Che cibi ama?
La torta pasqualina, la cima alla genovese, gli zucchini ripieni, le trofie al pesto.
Farebbe per favore la voce del prestigiatore Kranz?
No.
Grazie, gentile.
Grazie a lei. E chiuda bene il cancello. (Sorriso finale, stretta di mano: molta ammirazione per quest’uomo che presto avrà 80 anni e ha dentro di sé ancora tanta freschezza).