Justin Heckert, D, la Repubblica 15/12/2012, 15 dicembre 2012
LA RAGAZZA CHE NON SENTE IL DOLORE
La ragazzina che non sente il dolore era in cucina a mescolare i noodle, quando il cucchiaio le è scivolato di mano nella pentola d’acqua bollente. Era sera e l’indomani c’era scuola. Sua madre stava piegando dei vestiti seduta sul divano. Sovrappensiero, Ashlyn Blocker ha tuffato il braccio destro nella pentola per recuperare il cucchiaio, poi ha tirato fuori la mano dall’acqua e se l’è guardata alla luce del fornello. Ha fatto qualche passo verso il lavandino, ha aperto l’acqua fredda sulle sue tante cicatrici bianche sbiadite, dopodiché ha gridato: «Mamma, ho infilato le dita!». Sua madre, Tara Blocker, ha lasciato cadere i vestiti ed è corsa dalla figlia. «Santo cielo!», ha esclamato: dopo tredici anni, sempre la stessa paura. Ha messo delicatamente del ghiaccio sulla mano della figlia e constatato con sollievo che l’ustione non era grave.
«Ho preso un altro utensile e le ho fatto vedere come ripescare il cucchiaio», dice Tara con una risata stanca, raccontandomi l’episodio due mesi dopo. «Ma adesso ha iniziato a usare la piastra per i capelli, e quelle diventano incandescenti...». Seduta sul divano, Tara indossa una maglietta con la scritta Camp Painless But Hopeful (Campeggio senza dolore ma ottimista»). Ashlyn, accoccolata sulla moquette del salotto, sta confezionando una borsa all’uncinetto. Sua sorella Tristen, 10 anni, dorme sulla poltrona di pelle in braccio al padre, John Blocker, che ci è si è steso rientrando dal lavoro, e lentamente si sta appisolando anche lui. Nell’aria si sente l’odore della pastasciutta al formaggio che mangeranno per cena. Un tipico temporale del sud della Georgia rumoreggia sulle grondaie, e di tanto in tanto un lampo illumina il cesto da basket e la piscina nel giardino posteriore.
Nei sei giorni che trascorro con la famiglia Blocker, vedo Ashlyn comportarsi come qualsiasi tredicenne. Si spazzola i capelli, fa balletti in giro per casa e salta sul letto. Quando si prepara un tramezzino con l’uovo fritto in padella, appoggia le mani sul pane come le ha insegnato a fare Tara, per essere sicura che si sia raffreddato prima di metterselo in bocca. È in grado di sentire il calore e il freddo, ma non le temperature più estreme, quelle che farebbero ritrarre chiunque altro per il dolore.
Tara e John non sono del tutto tranquilli, all’idea di lasciare Ashlyn da sola in cucina, ma è una cosa che sentono di dover fare, una concessione al suo crescente bisogno di indipendenza. Ci tengono a raccontare gli episodi in cui si è dimostrata responsabile, ma sono tutti accompagnati da un aneddoto che fa male solo a sentirlo. C’è la volta in cui a due anni ha appoggiato le mani sulla marmitta di una pompa a motore in giardino, quando le ha alzate, la pelle non c’era più. C’è l’episodio delle formiche rosse che l’hanno punta cento volte mentre lei le stava a guardare interessata. La volta in cui si è rotta la caviglia e ha continuato a correrci sopra per due giorni, prima che i genitori si accorgessero del gonfiore. Raccontano con la stessa naturalezza con cui parlano delle partite di baseball di Tristen, o di quant’è bravo a golf Derek, ma si capisce che proteggere l’incolumità di Ashlyn, anche dopo tutti questi anni, è un problema. Al polso Ashlyn ha sempre una targhetta con le informazioni mediche che la riguardano. Ne ha otto, di colori diversi perché si intonino ai vestiti. C’è scritto: «Non sente il dolore. Sudorazione minima». A scuola una volta le hanno chiesto se era Superman. Un pugno in faccia l’avrebbe sentito? Camminare sui carboni ardenti per lei sarebbe stato come camminare sull’erba? Le avrebbe fatto male una coltellata nel braccio? Le risposte sono: no, no, si, no. Ashlyn sente la pressione e la consistenza. Sente gli abbracci e le strette di mano. Sente la sua migliore amica Katie quando le dà lo smalto sulle unghie.«Nessuno mi capisce!» esclama una sera mentre giochiamo a scacchi sul suo iPod. «In classe tutti mi fanno domande, e io rispondo: "Sento la pressione, ma il dolore no". Il dolore! È quello, che non sento. Ogni volta devo rispiegarlo».
Quand’è nata, non ha pianto. Il giorno che ha sviluppato un terribile eritema da pannolino, il pediatra le ha detto di cambiare latte in polvere, applicare una crema e tenere asciutta la zona.«lo continuavo a pensare: "Eppure non piange"», racconta Tara. « I dottori dicevano che non era niente, ma io mi dicevo: cosa sta succedendo?».
Quando Ashlyn aveva 3 mesi, i Blocker si sono trasferiti dalla Virginia settentrionale a Patterson, in Georgia, dove Tara aveva dei parenti. A sei mesi, un giorno Ashlyn si è svegliata con l’occhio sinistro gonfio e iniettato di sangue. Il dottore le ha riscontrato un’estesa abrasione della cornea. «Ma Ashlyn se ne stava seduta lì tutta contenta», ricorda Tara. L’oftalmologo, convinto che la bambina avesse le cornee insensibili, li ha indirizzati all’ospedale infantile Nemours di Jacksonville, in Florida, dove analisi del sangue, TAC al cervello e alla colonna vertebrale non hanno evidenziato nulla. Infine è arrivata la diagnosi: «Insensibilità congenita al dolore».
«Quel dottore ci ha detto che praticamente eravamo gli unici», spiega Tara. «Che era una cosa rarissima. Che dovevamo tenerla d’occhio, e che siccome non se ne sapeva granché, loro più di tanto non potevano aiutarci. Un po’ come dire: be’, buona fortuna!». Tornata a casa, Tara ha digitato le parole «insensibilità congenita al dolore» in un motore di ricerca, quindi si è messa a leggere i risultati. Non ce n’erano molti, e quei pochi parlavano di mutilazioni e morti premature. Nessun consiglio rassicurante. «lo e John di questa malattia non avevamo mai sentito parlare», mi dice. «Eravamo terrorizzati». I Blocker si sono sbarazzati di tutti i mobili che avevano spigoli. Hanno fatto posare la moquette più morbida che hanno trovato. Non permettevano a Ashlyn di andare sui pattini o in bicicletta. Le fasciavano le braccia con strati di garza per impedirle di grattarsi fino a sanguinare. Tenevano nella sua stanza un interfono per neonati per sentire se digrignava i denti. Se nemmeno così riuscivano a dormire, la portavano con loro nel lettone, e Tara teneva le mani sopra quelle di Ashlyn perché durante la notte non se le morsicasse o si sfregasse gli occhi.
Quando Ashlyn aveva 5 anni, i Blocker hanno deciso che l’unico modo per trovare un’altra persona come lei nel mondo era mandare un segnale. Si sono messi in contatto con il giornale locale, il Blackshear Times, che nell’ottobre del 2004 ha pubblicato un articolo su Ashlyn, poi ripreso dalla Associated Press e rimbalzato in rete. La nonna di Ashlyn, che viveva in Virginia, ha chiamato Tara in Georgia. «Ma lo sai che c’è Ashlyn su Internet?», le ha chiesto. « "La bambina che non sente il dolore!". Accendi il computer!» Ma i Blocker a quel punto lo sapevano: erano già stati contattati dal celebre programma tv Good Morning America. Tornati a Jacksonville, la gente li riconosceva in aeroporto. Sono stati intervistati dalla tv francese e dalla BBC, li ha chiamati anche Oprah Winfrey, ma poi non se ne è fatto niente. Ashlyn è apparsa sul numero del 24 gennaio 2005 di People, quello famoso con Brad Pitt e Jennifer Aniston in copertina e l’enorme titolo «Brad & Jen: ecco perché si sono lasciati».
Grazie all’attenzione dei media, la famiglia è finalmente riuscita a entrare in contatto con degli scienziati in grado di aiutarli a capire la malattia della bambina. Il dottor Roland Staud, docente di medicina e reumatologo alla University of Florida, ha sentito parlare di Ashlyn e ha invitato i Blocker a Gainesville, dove da quindici anni conduce ricerche sul dolore cronico. Da allora, per anni Staud ha esaminato il materiale genetico della bambina, trovando infine due mutazioni nel suo gene SCN9A. Quello stesso gene, soggetto a una diversa mutazione, provoca dolori acuti e sindromi da dolore cronico. Se fosse riuscito a capire come operava la mutazione in Ashlyn, ipotizzava Staud, forse sarebbe riuscite a neutralizzarla negli individui affetti da dolore cronico.
Il legame tra questo gene e l’insensibilità al dolore è stato scoperto in Inghilterra nel 2006 da un genetista di Cambridge, Geoffrey Woods. Qualche anno fa a Woods è stato chiesto di visitare un bambino di Lahore che, gli avevano detto, non sentiva il dolore. «Ho accettato di andarci», dice Woods. Ma quando è arrivato lo hanno accolto la madre e il padre: il bambino era morto. «Il giorno del suo compleanno, volendo esibirsi per i suoi amici, aveva deciso di saltare dal tetto della sua casa a un piano solo», racconta Woods. «E così ha fatto. Dopodiché si è alzato e ha detto che stava bene, ma il giorno dopo è stato stroncato da un’emorragia. Lì mi sono reso conto che il dolore ha un significato diverso da quello che credevo. Questo bambino non aveva i comportamenti da dolore a contenerlo. Tornato in Inghilterra, ho trovato altre tre famiglie con bambini nella stessa situazione: ferite multiple, labbra, lingue, mani morsicate, fratture, cicatrici. In diversi casi i genitori avevano rischiato di vedersi togliere il figlio per sospette violenze».
«La gente ti guarda come se fossi isterico o mezzo matto, se dici che non senti il dolore», mi spiega Woods. «Non vuoi che si sappia in giro. Abbiamo constatato che le famiglie scelgono con molta attenzione a chi rivelare la diagnosi. Abbiamo perfino scoperto che esiste un gruppo di famiglie di questo tipo, che però lo tengono segreto». Ecco perché Woods ritiene che la malattia sia meno rara di quanto si è creduto finora. «Credo interessi più di una persona su un miliardo», dice, «o anche solo su un milione».
Woods e i suoi colleghi hanno cominciato a cercare i geni che provocano questa sindrome, concentrandosi infine sull’SCN9A. I nervi preposti alla percezione del dolore presenti sulla superficie del corpo di solito si attivano con maggiore frequenza quando tocchiamo qualcosa di caldo o affilato, inviando al cervello segnali elettrici che ci spingono a reagire. Questi segnali elettrici sono generati da dei canali molecolari che vengono prodotti dal gene SC9A. La mutazione di Ashlyn impedisce al gene SC9A di produrre il canale molelolare che li genera», mi spiega Stephen G. Waxman, docente di neurologia alla Yale University. «È un disturbo straordinario», dice Woods. «I maschi muoiono più giovani perché tendono ad avere comportamenti più rischiosi. È davvero interessante, perché ci si rende conto che il dolore esiste per una quantità di ragioni, una delle quali è farci usare il nostro corpo in modo corretto e senza danneggiarlo, nonché per modulare ciò che si fa».
Quando vado a trovare Roland Staud nel suo studio, affissa alla bacheca dietro la scrivania c’è una foto di Ashlyn. Staud l’ha vista lanciare aeroplanini di carta nei corridoi dell’ospedale dopo lunghi giorni di esami, e ogni anno lui e la famiglia fanno una foto insieme. «La sua storia è un ritratto sorprendente di quanto può diventare complicata la vita se non c’è il dolore a guidarla», dice Staud. «Il dolore è un dono, e lei questo dono non ce l’ha». Seguendo per anni Ashlyn, Staud voleva capire come sarebbe diventata procedendo nell’adolescenza. «Sappiamo molto poco sugli effetti a lungo termine di questo disturbo», dice. «Che persona sarà dal punto di vista emotivo? Come si svilupperà?» A volte capita di avvertire il dolore emotivo a livello fisico - Staud fa l’esempio scontato ma efficace di quando qualcuno ci "spezza il cuore" - e si chiede se il rapporto tra il corpo e le emozioni non funzioni anche nella direzione opposta. Se a una persona manca la capacità di avvertire il dolore fisico, questo può in qualche modo compromettere il suo sviluppo emotivo? «È una ragazzina di buon carattere, e ha dei genitori che hanno imparato a influenzarla senza l’ulteriore strumento del contatto fisico». Si interrompe un istante, poi aggiunge: «Non credo pianga molto spesso».
Ashlyn piange, sì. Ha pianto quando all’inizio dell’anno il suo cane è scappato, raggomitolata tra mamma e papa nel lettone. «Lei la prova, l’empatia», dice Tara. «Davvero. Non so se questo con i loro studi l’hanno scoperto. Ma io so che è così, lo so con il cuore». John e Tara l’hanno vista esclamare «Ahi!» quando a farsi male era qualcun altro. E quando suo padre le ha raccontato della volta in cui si è piantato un chiodo da una parte all’altra del pollice costruendo un pollaio, Ashlyn ha strillato, ma senza avere idea del perché il padre avesse la faccia tutta rossa e parlasse a voce alta agitando il pollice. Ashlyn spiega che nel corso degli anni ha studiato le espressioni delle altre persone, imparando a reagire con una smorfia o con il corpo quando qualcuno descrive un’esperienza dolorosa: «Mi spiace per lui, perché sente male mentre io no. Vorrei aiutarlo».
L’anno scorso, un sabato mattina si è svegliata dopo mezzogiorno - le piace dormire fino a tardi - e arrivando in salotto ha annunciato alla madre: «Ho fatto un sogno». Tara pensava che cominciasse a raccontarle qualche storia fantastica, invece Ashlyn le ha detto: «Nel sogno aprivamo un campeggio per i bambini come me». Ha detto che nel sogno c’erano un lago e delle barche, e dei bambini che prima non conoscevano nessun altro come loro e che correvano tutti insieme. Ed è così che è nata l’iniziativa «Camp Painless But Hopeful». Tara ha telefonato al campeggio Twin Lakes di Winder, in Georgia, a quattro ore da Patterson, per organizzare da loro un fine settimana per bambini che non sentono il dolore. I Blocker hanno preparato delle magliette e attaccato degli adesivi alla loro macchina. Tara ha pubblicizzato la cosa su una pagina Facebook privata chiamata «A Gift of Pain» (un regalo del dolore)». Si sono iscritte otto famiglie.
Il raduno ha avuto luogo all’inizio di novembre. C’erano Roberto Salazar, un undicenne di Indianapolis e Isaac Brown, 3 anni, con la sua famiglia, la prima a raggiungere il campeggio dopo un viaggio in auto di due giorni da Mapleton, Iowa. Quando sono arrivati anche i Blocker, Tara è balzata giù dalla macchina ed è corsa ad abbracciare Carrie Brown, ferma accanto al furgone. Entrambe hanno pianto. «È stato... non so come spiegarlo», dice Carrie. «Era come se finalmente avessi incontrato un’altra madre che mi capiva». La prima notte al campeggio, Ashlyn ha preparato dolcetti di marshmallow e cioccolato: «È stato fantastico conoscere delle persone che erano proprio come me».
Tara ha invece scoperto in rete resistenza di Karen Cann, che oggi ha 35 anni, nel 2009, e le ha scritto dicendole quant’era felice di aver trovato qualcuno che potesse fare da guida a Ashlyn. Voleva anche saperne di più: com’era stata la sua vita? Sapeva che Cann aveva un marito e una figlia. Com’era essere madri senza sentire il dolore?
Quando Karen e sua serena Ruth erano bambine in Scozia, nessuno riusciva a capire quale fosse il loro problema. Come i Blocker, i loro genitori vivevano nel terrore che le figlie si facessero del male da sole, ma le bambine, anziché cercare persone simili a loro, tentavano di integrarsi. «Non volevamo che ci considerassero degli scherzi di natura», dice oggi. Da ragazzine avevano in continuazione bruciature, cicatrici, arti ingessati, e la madre doveva sopportare le domande insospettite dei dottori.
«A Tara» dice Karen «ho risposto con una mail piuttosto lunga, perché volevo rassicurarla sul fatto che la malattia, per me e mia sorella, nella vita non era stata un ostacolo», racconta Cann. «Sapevo che Ashlyn era piccola, e che per Tara doveva essere un periodo di preoccupazioni».
Quando Cann aveva l’età di Ashlyn, è entrata nella pubertà e ha cominciato a interessarsi ai ragazzi, ma ricorda che provava imbarazzo per le sue cicatrici, che nascondeva le gambe sotto lunghi vestiti. Ma col tempo le cose erano diventate più semplici, diceva a Tara, e sia lei che Ruth erano riuscite a terminare gli studi e perfino a laurearsi. Entrambe avevano compagni che le amavano, ottimi amici e lavori a tempo pieno. Quando Cann faceva l’amore con il marito provava piacere, o almeno le pareva di provarlo.
«L’intimità è piacevole», dice a me. «Magari non provo esattamente le stesse cose, però sono belle sensazioni». Dice che ha imparato a convivere con la malattia, e a riconoscere le cose che possono farle male. C’è voluto un percorso lungo una vita, ma è stata proprio questa consapevolezza crescente a permetterle di affrontare l’età adulta. Cann ha avuto la prima figlia a trentun anni, con un taglio cesareo d’urgenza. La bambina è nata sana, ma partorendo Cann si era fratturata il bacino, ma per settimane non se n’è accorta. Ha dovuto passare i successivi sei mesi in ospedale. Nel 2011 ha avuto il secondo figlio, un maschio, di nuovo col cesareo. Stavolta le hanno fatto le lastre subito dopo il parto, e senza evidenziare danni.
Tara e Cann si scrivono ancora oggi. «Grazie a lei mi sono fatta un’idea del tipo di futuro che possiamo aspettarci per Ashlyn», dice Tara. «Adesso, ogni volta che ho qualche dubbio, so che c’è una persona a cui posso chiedere». Nonostante la sensazione che lei e Ashlyn siano legate dall’esperienza comune, però, Cann non ha mai incontrato personalmente i Blocker, né si sono parlati. Quando le chiedo perché, risponde: «Emotivamente sono ancora abbastanza fragile, e temo che al telefono potrei agitarmi, con il rischio di far preoccupare Tara ancor di più per il futuro di Ashlyn», aggiunge. «Non che a lei debba per forza capitare la stessa cosa. Ma si sa che i genitori si preoccupano, no?».
(©2012 The New York Times -The NYT Syndicate. Trad. di Matteo Colombo. Foto ag. Contour/Getty)