Stefano Cingolani, Il Mondo nel 2013, Panorama 13/12/2012, 13 dicembre 2012
IL PRINCIPE E L’EURO
Ha salvato l’euro nell’estate del 2012 e la moneta unica resterà ancora a lungo nelle sole mani di Draghiavelli, come lo chiamano i blogger sul Financial Times. Un compito arduo, un peso forse eccessivo che Mario Draghi vorrebbe scrollarsi di dosso almeno in parte: «L’azione della Bce può ricostruire la fiducia nel breve termine, ma solo l’azione dei governi può farlo nel lungo termine» spiega il presidente della Bce. E tuttavia, divisi, deboli, privi di un vero programma comune e di una leadership, proprio i governi sono il punto debole di Eurolandia. Per questo, il banchiere italiano, con il Principe in una mano e gli esercizi spirituali di Ignazio da Loyola nell’altra, dovrà bere fino in fondo l’amaro calice.
Nel 2012 ci sono stati alcuni importanti passi avanti nella costruzione dell’area economica e monetaria comune. Oggi c’è il Meccanismo europeo di stabilità (o fondo salvastati Esfs) che può prestare soldi ai paesi in difficoltà e acquistare titoli pubblici sul mercato primario; c’è il fiscal compact che stringe in un vincolo le politiche di bilancio europee; c’è l’unione bancaria con la vigilanza accentrata nella Bce.
Draghi ha messo a disposizione delle banche prestiti a basso interesse (1 per cento) e a tempo indeterminato, mobilitando ben mille miliardi di euro. E soprattutto ha varato il programma di acquisti dei titoli pubblici sul mercato secondario, chiamato Omt (Outright monetary transactions). Interventi «illimitati», un aggettivo sul quale è avvenuta la rottura con Jens Weidmann, presidente della Bundesbank, la banca centrale tedesca. La cassetta degli attrezzi, dunque, si è arricchita di nuovi strumenti. Ma l’intera macchina è rimasta in garage. La prova del nove arriverà al momento di metterla in moto davvero.
«Dobbiamo capire come funzionano i mercati » ha spiegato Draghi il 7 novembre 2012, tenendo una vera lezione agli industriali di Francoforte. La crisi di fiducia ha spinto i capitali verso la Germania, portando il costo del denaro sotto zero e alzando oltre misura gli interessi nei paesi in difficoltà, «esattamente come in un sistema di vasi comunicanti». La Bce ha abbassato l’asticella, riducendo i tassi di riferimento, ma l’impulso non si è trasferito alle imprese e alle famiglie, perché le banche hanno trovato troppo costoso finanziarsi sul mercato e hanno mantenuto alti i tassi alla clientela. «Così la politica monetaria non è stata in grado di sostenere l’economia reale». Ecco perché bisognava invertire le aspettative, aumentare la fiducia nel sistema. «Si erano diffusi immaginari scenari di disastro » ricorda il presidente della Bce. E tra questi c’era anche la frattura dell’euro e la fine della moneta unica.
Ai primi di agosto Mario Draghi lancia un segnale chiaro: la Bce non avrebbe più consentito operazioni speculative contro i paesi più deboli. «L’unico modo di reagire era proprio offrire una risposta pienamente credibile per smentire il catastrofismo che dominava i mercati». Di qui il messaggio forte: «Useremo ogni mezzo possibile per difendere l’euro». Ma le parole non bastano, ci vuole il bastone dietro la schiena. Dunque, per dare consistenza alla minaccia, arrivano le Omt, ovvero un programma di acquisto di titoli di stato varato dalla Bce. Il mercato mangia la foglia e batte in ritirata, anche se le tensioni restano perché gli squilibri fondamentali che hanno generato le fiammate speculative non sono stati certo risolti. Sarà il compito che un 2012 per molti versi drammatico passa al nuovo anno, quando tutti i nuovi strumenti dovranno essere messi in campo e dagli annunci bisognerà passare agli atti.
«Interventi illimitati non significa incontrollati» mette in guardia il presidente della Bce. Ed evoca «la condizionalità» grazie alla quale ha ottenuto il via libera di Angela Merkel, a dispetto della stessa Bundesbank. Una mossa machiavellica nel senso migliore: non il fine che giustifica qualsiasi mezzo come vuole la vulgata, ma l’astuzia volpina associata alla forza leonina.
Draghi è convinto che il sollievo monetario dura poco se non è legato a politiche di bilancio severe. Lo ripeteva anche quando guidava la Banca d’Italia o gestiva il Tesoro, come direttore generale del ministero di via XX Settembre negli anni 90. Tuttavia, non ha una concezione ideologica e metafisica dell’austerità. Essa è lo strumento per raggiungere la crescita e la riduzione della disoccupazione, «deplorevolmente alta». Così facendo introduce un po’ di americanismo (la Federal Reserve, la banca centrale americana, ha due obiettivi: la stabilità dei prezzi e il pieno impiego). E non c’è dubbio che Draghi resterà negli annali come un innovatore che ha trasformato la Bce: da notaio che regola la quantità di moneta a soggetto attivo del mercato.
«Siamo soddisfatti delle odierne condizioni finanziarie? Certo che non lo siamo» insiste. «C’è una frammentazione nell’euro area, assistiamo a una rinazionalizzazione dei sistemi bancari e le differenze nei costi di finanziamento vanno ben oltre i fondamentali dell’economia». L’agenda dei prossimi mesi è riassunta in questi rimproveri di fondo. L’euro non è più appeso nel vuoto come un anno fa, però resta ancora una moneta senza sovrano. Anzi, gravita in una sorta di terra di nessuno dove le sovranità nazionali contano sempre meno, ma a esse non si è sostituita una nuova sovranità collettiva o federale che dir si voglia.
Il banchiere centrale è come un idraulico, diceva Bonaldo Stringher, primo governatore della Banca d’Italia. Il suo compito è sturare le tubature, garantire che la moneta fluisca senza troppi intoppi lungo le condotte dell’economia. Ma «il momento delle riforme non deve cessare». La condizionalità è una garanzia nei confronti dei governi e serve a proteggerne l’indipendenza. Dunque, niente più supplenza, aiutatevi che anch’io vi aiuto. E qui si può leggere la eco dei suoi giovanili maestri gesuiti. Sant’Ignazio costruiva le case per le ragazze madri e per le prostitute, accoglieva ogni peccatore, purché fosse deciso a seguire la retta via.
Tutta questa arte monetaria rischia di diventare esercizio teorico se non si compie il grande salto verso una crescita sostenibile (cioè senza altri debiti e senza inflazione). La chiave non è nella spesa pubblica, ma nella produttività ed essa, a sua volta, dipende dalla domanda, partendo dagli investimenti e non dai consumi. Ecco il compito a casa per gli altri attori del dramma chiamato crisi: i governi, gli imprenditori, i sindacati e la Germania colpita anch’essa dalla recessione. «Non c’è da sorprendersi» ha ricordato Draghi «perché il 40 per cento del suo prodotto lordo e due terzi dei suoi investimenti esteri diretti provengono dalla zona euro». Non sono i cinesi a sfamare i tedeschi, ma di gran lunga ancora gli altri europei. Berlino, insomma, deve cambiare marcia. Se non avviene, non basterà nemmeno Draghiavelli.