Franca Roiatti , Il Mondo nel 2013, Panorama 13/12/2012, 13 dicembre 2012
Gli isareliani si preparano a colpire in Iran?
[La «guerra degli 8 giorni» è stata interpretata come la prova generale di un possibile attacco israeliano all’Iran. Ma ci sono anche altri fattori di instabilità. A cominciare dalla guerra civile in Siria, dove l’immobilismo internazionale può favorire soluzioni fondamentaliste.] –
L’offensiva di novembre contro Gaza è stata letta come una prova generale in vista dell’attacco all’Iran. Un test soprattutto per Iron Dome, lo scudo antimissile di Israele. Ma anche un modo per capire di quali armi disporrebbero Hamas ed Hezbollah per colpire lo stato ebraico impegnato a sventare le ambizioni atomiche degli ayatollah.
«La finestra per colpire gli impianti nucleari iraniani si chiuderà in primavera. Poi sarebbe inutile, secondo l’intelligence: troppo tardi per bloccare i progetti di Teheran» afferma Luciano Bozzo, docente di Relazioni Internazionali all’università di Firenze e curatore del volume Studi di Strategia, appena pubblicato da Egea. «Israele non ha le capacità tecnologiche per condurre l’attacco e ritengo difficile che gli Stati Uniti offrano il loro supporto, tuttavia questo non significa che Tel Aviv rinunci. Da tempo si studiano i piani d’azione. I militari sono i più scettici, temono il fallimento e le possibili rappresaglie di un’operazione che nei fatti servirebbe solo a rallentare il processo verso l’atomica. Spetta tuttavia al primo ministro dichiarare guerra». Primo ministro che sarà nominato dopo le elezioni anticipate volute dal governo di Benjamin Netanyahu, in programma per il 22 gennaio. Alla competizione non prenderà parte Ehud Barak, ministro della Difesa in carica, militare pluridecorato deciso a ritirarsi dalla vita politica. Mentre rientra in gara l’ex ministro degli Esteri Tzipi Livni, con una nuova formazione di centro.
I sondaggi attribuiscono al blocco dei conservatori e della destra religiosa 69 seggi su 120, una buona maggioranza per Netanyahu, nonostante lo shock provocato dai missili su Tel Aviv avesse convinto molti israeliani che il governo doveva invadere la striscia di Gaza e non siglare il cessate il fuoco. Succederà a gennaio? Liberman in un’intervista aveva detto che una simile decisione sarebbe spettata al nuovo governo, che non si profila certo come il più pronto a riavviare il processo il pace con i palestinesi. «Netanyahu vorrebbe mantenere lo status quo» osserva Raffaella Del Sarto, professore aggiunto di studi sul Medio Oriente alla School for advanced international studies (Sais) della Johns Hopkins University di Bologna; «tuttavia, il recente conflitto di Gaza ha riacceso l’attenzione internazionale sulla questione palestinese, facendo comprendere che l’unica soluzione per il medio-lungo termine è la riapertura dei negoziati. E Hamas è ormai una forza di cui Israele dovrà tenere conto nelle trattative, mentre l’autorità di Abu Mazen è sempre più debole. L’opposto di quanto il governo israeliano ha sempre voluto».
Che cosa faranno gli Usa? L’appoggio incondizionato a Israele nell’operazione «Pilastro di difesa» allontana l’ipotesi che Barack Obama voglia «vendetta» per le simpatie di Netanyahu verso Mitt Romney. Il neoeletto presidente premerà affinché israeliani e palestinesi riprendano il cammino della pace? «Le primavere arabe hanno consacrato una generazione che vede gli Usa come avversari» sottolinea Riccardo Bocco, professore all’Institut des hautes études internationales et du développement di Ginevra. «Washington, ma anche l’Europa, sono costrette a ripensare la loro politica verso il mondo arabo, legittimando i governi di ispirazione musulmana al potere». La collaborazione con Mohammed Morsi per ottenere il cessate fuoco a Gaza è un segnale in quella direzione, un successo per la diplomazia dei Fratelli musulmani e un chiaro avvertimento per Tel Aviv.
Oltre il Golan, la Siria appare condannata a uno stallo sanguinoso. Bashar Assad difficilmente si arrenderà. «La nomenclatura siriana è relativamente giovane, a differenza di quella di Mubarak o di Ben Alì, e non ha tutti quegli ingenti tesori all’estero» aggiunge Bocco. «Tuttavia diventa sempre più difficile anche per loro semplicemente vivere a Damasco: questo potrebbe aprire prospettive interessanti per la coalizione degli oppositori nata a Doha in Qatar agli inizi di novembre». La coalizione ha già avuto l’imprimatur, tra gli altri, di Francia, Gran Bretagna e Unione Europea, ma alcuni gruppi ribelli in azione sul campo non ne riconoscono la legittimità. «Si tratterà di capire se nel 2013 questo raggruppamento sarà in grado di formare un governo in esilio, pronto a prendere le redini del paese nel dopo Assad. E a convincere Cina, Russia e Iran per una soluzione che non li penalizzi nel caso di un cambio della guardia a Damasco».
La partita più complessa rimane quella delle forniture di armi e dell’eventuale appoggio più concreto dell’Occidente ai ribelli siriani. Troppe incognite: a chi arrivano davvero gli aiuti militari? Ai ribelli del Free Syrian Army o ai salafiti? Quanto può durare la guerra? Non c’è il rischio che volga a favore degli estremisti? Il rischio che la violenza siriana infetti il vicino e fragile Libano, con Hezbollah preoccupato di perdere l’alleato Assad e i sunniti vicini a Saad Hariri desiderosi di vendetta contro il regime siriano, è concreto. «Ci sono tensioni settarie crescenti» avverte ilthink tank International crisis group «e le opposte forze politiche paiono sempre meno in grado di controllare i loro sostenitori più radicali».
Quante pedine l’Iran riesca ancora a controllare su questo intricato scacchiere è un altro punto cruciale. L’esito dell’offensiva su Gaza sembra avere offuscato l’influenza iraniana nella regione a favore di Morsi: «Se a questo sommiamo l’indebolimento dell’economia interna a causa delle sanzioni, ritengo che a Teheran ci possa essere un maggiore impulso a cercare in segreto un dialogo con gli Usa» avverte Sanam Vakil, professore aggiunto alla School for advanced international studies (Sais) della Johns Hopkins University di Bologna, esperta di politica iraniana.
A giugno del 2013 si voterà per eleggere il successore di Mahmoud Ahmadinejad alla testa della repubblica islamica: «Dovrà ricomporre il rapporto con la guida suprema, ma anche ricostruire i ponti con i riformatori e trovare un punto d’accordo con i giovani istruiti delle città» spiega Vakil. «L’Iran si sente vulnerabile al suo interno e le elezioni potrebbero rafforzarlo, rendendo più facile agire sui fronti esteri. Il paese vuole vedere riconosciuto il proprio ruolo nell’area». Attenzione, però, avverte Vakil, «se un’eventuale apertura di Teheran dovesse essere respinta o i negoziati fallire, l’Iran continuerà ad agire da guastatore, rinforzando i suoi rapporti con Hamas, Hezbollah e altri gruppi reclamando il suo status per vie alternative».