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 2012  dicembre 13 Giovedì calendario

IL 2013 VISTO DA GIUSEPPE DE RITA UN NUOVO BIORITMO NAZIONALE

«Una società come la nostra vive di tempi lunghi, non basta un nuovo governo per cambiarne improvvisamente il destino. E comunque nulla di decisivo può avvenire se prima l’Italia non ritrova la sua piena sovranità». Giuseppe De Rita, presidente del Censis, ha davanti a sé il rapporto 2012 sulla situazione sociale del Paese. La certificazione è da medico curante: il Belpaese soffre di molte patologie. La buona notizia è che sono gravi ma non incurabili.

Presidente, vorrei subito ascoltarla sul 2013. Ci regali qualche buona notizia.
Il problema è che l’Italia non presenta mai grandi novità repentine. È difficile immaginare che un Paese sviluppatosi lentamente possa cambiare il suo destino in un attimo.
Forse avevo capito male, ma sembrava che Mario Monti questo dovesse fare: cambiare il nostro destino.
La vera novità del governo tecnico è il tentativo di riallacciare le fila di una società slabbrata. Non c’è una novità materiale, ma Monti sta ricucendo il tessuto del Paese.
È dunque un percorso culturale, quello del Professore.
Monti dice: «Sono qui per cambiare i comportamenti degli italiani». È una lenta evoluzione anche questa, un tentativo di lungo periodo. D’altronde le azioni di un piccolo imprenditore, un capofamiglia, un impiegato non mutano la società dall’oggi al domani. Ogni comportamento incide in modo infinitesimale sulla rotta generale. Come le corazzate in mare aperto.
Da quanto dice pare indifferente il risultato delle elezioni politiche del 2013. Non sembra che un’idea politica, ammesso che ne esistano, possa rivoluzionare l’Italia.
Chi vince o perde è uguale, anche se sembra una bestemmia. Le spiego: oggi il governo è più importante della politica. Anche molte istituzioni non fanno più le istituzioni ma governano. Che so: la magistratura, il Tar. E tanti politici vogliono soltanto governare le istituzioni, non pensano di fare politica, navigare nel consenso di massa o applicare i programmi.
Eppure tutti parlano di riforme. Che cosa andrebbe fatto subito?
Niente.
È sarcastico?
No, questa idea delle riforme ce la portiamo dietro dal 1950. Non siamo mai riusciti a farne una dignitosa, tranne quella della creazione del sistema sanitario nazionale. Ma parliamo di quarant’anni fa. Per il resto, la realtà è sempre più pesante di qualsiasi riforma. Un sistema complesso va gestito, non riformato.
Quindi anche la politica dovrebbe limitarsi a gestire.
Non vorrei dare l’impressione di essere troppo cinico. Ma oggi gestire un sistema significa tutto. I suoi rapporti internazionali, anzitutto. Poi c’è l’economia, che ha dimensioni ormai globali: la moneta, la finanza, il mercato delle merci, persino l’immigrazione biblica. Infine c’è la vita quotidiana, dai dissesti idrogeologici alle esigenze di infrastrutture. Me lo faccia dire brutalmente: gestire tutte queste cose vale molto più della riformetta del mercato del lavoro.
Voglio seguirla. Il sistema Italia come gestisce la globalizzazione?
Se pensiamo che nella crisi mondiale l’Italia ha continuato a esportare manifatturiero in forma assolutamente imprevista, vuol dire che quando siamo padroni di noi stessi, nella globalizzazione ci sappiamo stare benissimo. Se invece dobbiamo stare dentro i vincoli di finanza pubblica, il debito internazionale, lo spread, ci sentiamo dei sudditi. E gli italiani, quando diventano sudditi, sono una tragedia.
Gli effetti quali sono?
Perdiamo il nostro orgoglio e la nostra capacità di stare in commedia. Diventiamo dei comprimari. Credo che il mio amico Paolo Savona abbia quasi ragione nel chiedere di tornare alla lira, proprio per ritrovare la sovranità smarrita. Ricordo che quando il governo Craxi fece entrare l’Italia nel G7, i nostri camionisti giravano con la striscetta tricolore «Io sono italiano». Ecco, se abbiamo un momento di sovranità, diventiamo cittadini del mondo. È un effetto naturale.
Al Paese sembrano però mancare i modelli positivi. La borghesia sembra addirittura sparita.
La società contemporanea necessita di una classe capace di fare sistema. In Italia abbiamo avuto un imborghesimento del ceto medio ma non abbiamo mai creato una borghesia di sistema. E questo, naturalmente, lo stiamo pagando adesso.
Ma una scossa immediata la si potrà pure dare, o no?
Della scossa politica non parlo, ne abbiamo avute pure troppe. Quanto all’economia, abbiamo utilizzato due strumenti. Lo Stato imprenditore che interviene, per esempio, con la Cassa del Mezzogiorno e le partecipazioni statali. E la piccola imprenditoria, la cui scossa è stata indotta per molecole negli anni Settanta. Fu allora che milioni di lavoratori, in nero o in chiaro, diventarono padroni di se stessi. Questa fu una scossa vera, che mutò i comportamenti generali se non altro per imitazione. L’amico, il parente, il coetaneo fanno gli imprenditori? E allora lo divento anche io.
Un esempio concreto?
L’operaio Fiat che si mette in testa prima di fare il lavoratore in subappalto e poi il piccolo imprenditore. Però, sia chiaro, non fu una scossa di pochi giorni. Fu un percorso lento. Il che non è necessariamente negativo. È una lentezza, la nostra, che ci fa essere diversi.
Qualche esempio ulteriore?
Per quarant’anni abbiamo riempito giornali e libri con i miti delle automobili, della velocità, del suv. Nel 2012 gli italiani hanno però comprato più biciclette che macchine. Questo perché la lentezza porta a differire dal passato in maniera strutturale.
Però a me sembra che l’Italia abbia totalmente smarrito l’idea di futuro. La ritroveremo nel 2013?
Noi abbiamo avuto un’idea di futuro dal 1945 al 1990. Ci siamo rifatti le case, le seconde case, abbiamo fatto l’impresa, abbiamo fatto di tutto. Il futuro noi ce lo siamo conquistato dal nulla fino al made in Italy e alla quotazione in Borsa delle nostre imprese migliori. Non è che a Della Valle e a Cucinelli manchi la fame di futuro.
A un italiano medio forse sì.
In genere però ritiene che il ciclo rampante della sua vita sia passato. È difficile dirgli: devi restare rampante, devi mangiare il futuro. La verità è una sola: bisogna aspettare che ricominci il ciclo psicologico che ha spinto il Paese e oggi è in declino. Ma il cambiamento non c’è mai nei termini cinematografici, dobbiamo aspettare che maturi un’onda nuova. Ci vorrà qualche anno.
E nel frattempo?
Bisogna pazientare e aspettare il nuovo bioritmo nazionale.