Donald McRae, Panorama 13/12/2012, 13 dicembre 2012
PER BUTTARSI DALLO SPAZIO BISOGNA AVERE PAURA. E QUELLA NON MI MANCA
PER BUTTARSI DALLO SPAZIO BISOGNA AVERE PAURA. E QUELLA NON MI MANCA [In milioni hanno guardato il suo lancio dai confini dell’atmosfera. Lo hanno soprannominato «Fearless Felix». Ma Baumgartner, l’uomo che ha infranto la barriera del suono, spiega che è stato proprio il terrore, e le tecniche che ha dovuto imparare per vincerlo, a portarlo al record.] –
Mi chiamano Fearless Felix», Felix senza paura, racconta l’uomo che si è lanciato verso terra superando la velocità del suono. Lo scorso 14 ottobre Felix Baumgartner ha raggiunto i 39.045 metri di quota chiuso in una piccola capsula sostenuta da un pallone pieno di elio e si è lanciato in caduta libera attraverso 39 chilometri di gelida oscurità raggiungendo la velocità massima di 1.342,8 km/h. Il salto spaziale di Felix Baumgartner è stato seguito in diretta su Youtube da più di 8 milioni di persone, e la reazione entusiastica suscitata online è stata eguagliata dalla grande risonanza che l’evento ha avuto nei media tradizionali.
Spinto dalla curiosità, l’austriaco Baumgartner, che già a 5 anni sognava di volare e disegnava, con dovizia di particolari, se stesso in volo nei cieli, ha raggiunto la sua più grande aspirazione. Abbandonato il base jumping, attività spesso illegale (è riuscito a eludere il servizio di sicurezza non particolarmente rigido di alcuni degli edifici più alti del mondo così da mettere in mostra il suo spericolato talento), è diventato uno degli uomini più acclamati al mondo.
Seduto su un’elegante poltrona di un hotel di Londra, Baumgartner inarca un sopracciglio quando parliamo del suo soprannome. «Sappiamo bene entrambi che Fearless Felix non esiste davvero» afferma tranquillamente. «Posso sembrare un supereroe, ma ho dovuto affrontare un’autentica battaglia psicologica. È stato molto più che fare un salto nel vuoto».
Baumgartner parla con l’entusiasmo di un uomo qualunque che è appena sopravvissuto a un’esperienza straordinaria. Per raccontare la sua impresa non usa immagini dello spazio, ma i confini molto umani della fragilità psicologica. Il 43 enne austriaco riconosce, saggiamente, che ammettere momenti di fragilità non è da deboli. C’è anche qualcosa di sorprendentemente toccante nelle sue rivelazioni: all’origine della sua claustrofobia, infatti, c’è la sua vecchia tuta spaziale.
«Il mio desiderio di libertà mi faceva odiare e temere quella tuta. Ho cominciato a lanciarmi con il paracadute perché amavo la sensazione di libertà. Poi invece mi sono ritrovato intrappolato in quello scafandro a cui ogni giorno veniva aggiunto del peso. Mi dicevano: “Bene, hai bisogno delle bombole d’ossigeno” e un paio di settimane dopo: “Ti serve un chest pack all’altezza del torace”. Quella scatola diventava sempre più pesante e la tuta è arrivata a essere il doppio del mio peso normale. Ora i lanci con il paracadute non mi divertono più, anzi mi spaventano. Ricordo il primo lancio con la tuta pressurizzata: ero a più di 9 mila metri di quota e mi è sembrato di rivivere il mio primissimo lancio con il paracadute: la stessa paura. Non mi sono mai trovato bene con quella tuta perché non l’ho mai sentita come una seconda pelle.
«Solitamente quando mi lancio indosso guanti molto sottili, anche d’inverno. Desidero potermi muovere in modo flessibile e rapido. Una tuta spaziale, invece, ti rallenta: i guanti sono più grandi e non si riesce a muovere bene la testa. Un movimento naturale quando si tira il paracadute è quello di guardare in alto. Ma con la tuta è impossibile. Quindi adesso sui miei guanti ho due specchi.
«Apro il paracadute e guardo in giù ver verso gli specchi per vedere se si è gonfiato completamente. Nel momento stesso in cui sono entrato nella tuta pressurizzata ogni tecnica sviluppata nel corso degli anni si è rivelata praticamente inutile. E dopo 25 anni da professionista questo ti fa sentire debole e indifeso».
La vulnerabilità di Baumgartner era legata alla claustrofobia: «Rimanere nella tuta per più di un’ora mi causava attacchi di panico. Puoi lottare e resistere per un’ora, ma cinque ore sono troppe, e non riuscirai mai a vincere la battaglia. Ecco perché dovevo affrontare la mia paura».
Il problema era diventato così angosciante che l’atleta austriaco dovette chiedere un supporto psichiatrico. «Per la prima volta ho avuto bisogno di aiuto» conferma con una smorfia. «All’inizio è stato molto imbarazzante. Mi facevano domande del tipo: “Come descriveresti a tuo figlio ciò che è successo?”». Aggrotta la fronte: «Io non ho figli, quindi non avevo voglia di parlare con un bambino immaginario. Ma allo stesso tempo pensavo: se può aiutarmi a liberarmi dall’ansia, parlerò al mio figlio invisibile».
All’improvviso una voce severa tuona: «Attenzione, questa è un’emergenza». Baumgartner spalanca gli occhi. «Davvero?» chiede. «Per favore, abbandonate immediatamente l’edificio utilizzando l’uscita più vicina a voi. Non usate ascensori o scale mobili» aggiunge la voce. Rimaniamo seduti e continuiamo a parlare, ma Joe Kittinger, il canuto 84enne detentore del precedente record per il salto più alto, da un’altezza di 31.333 metri nel 1960, e ora uno dei principali consulenti di Baumgartner, sbircia dietro l’angolo. «È una vera emergenza» sottolinea.
Anche l’odore della tuta di gomma lo agitava: «Non appena lo sentivo andavo in panico» continua a raccontare Baumgartner. «L’ansia iniziava già il giorno prima. Non riuscivo a dormire bene e il giorno dopo dovevo guidare fino a Lancaster (in California, base della capsula per i test di lancio, ndr). Quando superavo l’ultima collina, riuscivo a vedere la città a valle e sapevo che la tuta era lì ad attendermi. Lo psichiatra lo chiamava “il treno dei pensieri negativi”. E mi diceva: “Solo i pensieri positivi ti aiuteranno a scendere”. È facile a dirsi, ma davvero difficile a farsi. Però ci siamo riusciti. Ho ricominciato a sentirmi forte».
Eppure, Baumgartner aveva abbandonato il progetto per sei mesi; ciò che l’ha spinto a tornare indietro è stato vedere un filmato in cui qualcun altro eseguiva i test al posto suo. «Ero invidioso» confida «e pensavo: non dovresti esserci tu nella mia tuta. Ma dovevamo eseguire un test importante e non potevano dire: “Dal momento che Felix è fragile, lasciamo perdere”. Mi ha davvero ferito vedere Rob (il pilota collaudatore, ndr) indossare la mia tuta. Mi sono sentito come se mi avessero rimpiazzato. Ovviamente faceva parte del progetto, comunque quando ti trovi in quella situazione non ti piace».
Come per ricordarci che un dramma può capitare in qualunque momento, una rappresentante della Red Bull, la società austriaca che ha speso più di 18 milioni di dollari per aiutare Felix a realizzare il suo sogno, ci esorta a seguirla. «Facci sapere se vedi del fuoco» le dice Baumgartner laconico. «C’è una vera emergenza» risponde lei calma. «Ok» afferma Felix ridendo, e finalmente usciamo. Baumgartner continua a parlare concentrato: «Il momento più duro è stato quando, di ritorno dall’Austria, scoprii che la mia squadra mi aveva abbandonato» racconta. «Il mio psichiatra mi disse: “Nessuno pensa che tu ce la possa ancora fare. Devi riprendere il controllo”. Entrai in questa stanza e vidi tutti i miei amici seduti dall’altra parte del tavolo. Bastò solo guardarli, non furono necessarie le parole, ma io capii: nessuno pensava che io potessi ancora farcela».
Anche Joe dubitava di lei? «Tutti» risponde tristemente. Questa mancanza di fiducia è stata un duro colpo per lui, ex soldato, team leader autoproclamato e uomo d’azione. «Da Art Thompson, il direttore tecnico del progetto, a Mike Todd, il life support engineer, mai avrei pensato che dubitassero di me. Consideravo Mike come un padre, è stato la mia guida durante i momenti della vestizione della tuta spaziale, un po’ come un pugile con il suo coach prima di un incontro. Ma ora se ne stava seduto dall’altra parte del tavolo. Nessuno aveva più fiducia in me. È stato un momento veramente terribile. La claustrofobia era la mia unica debolezza. Ma non dipendeva da me, la colpa era della mia mente».
Baumgartner sembra un atleta sportivo quando descrive la «tattica» e la «strategia» che ha sviluppato per riprendere il controllo. «Pensavo: “farò tutto ciò che serve per riprendere in mano la situazione”, e dopo cinque giorni si sono visti i risultati. Due settimane più tardi tutti avevano recuperato la fiducia e sapevamo che ero pronto».
Tuttavia, i dubbi continuavano a tormentarlo. «Temevo di non riuscire a raggiungere la velocità supersonica oppure, nella peggiore delle ipotesi, di non eguagliare la velocità raggiunta da Joe Kittinger nel 1960. Ero ancora più sotto pressione. Non credo che la gente sappia cosa significa avere puntati addosso gli occhi del mondo intero, dal Papa al presidente degli Stati Uniti».
Ma i suoi problemi non erano finiti. Mentre raggiungeva la quota stabilita di 39.045 metri (il pallone aerostatico ha impiegato quasi tre ore per sollevare nello spazio la capsula pressurizzata della missione Red Bull Stratos), la visiera di Baumgartner ha iniziato ad appannarsi con il suo respiro. La prospettiva di compiere il salto semicieco rappresentava una minaccia per la missione. Si è dovuto quindi sottoporre a una serie di test prima che la sua attrezzatura potesse essere considerata perfettamente funzionante.
Una volta uscito dalla capsula, cominciò a ruotare nello spazio a una velocità tale che lo portò inevitabilmente a girare su se stesso. «Avevo un minuto per trovare una soluzione. Mentre ruotavo pensavo: premo il pulsante per attivare il parafreno così da interrompere l’avvitamento? Ma ciò significherebbe che è finita e che non riuscirò a raggiungere una velocità supersonica. Dovevo pensarci bene e trovare una via d’uscita. Ma quale? Dovevo mantenere il sangue freddo, la concentrazione, e non perdere il controllo, cosa che ho imparato a fare negli ultimi 25 anni. Ero lucido. La mia paura maggiore non era quella di morire, ma di non riuscire a raggiungere la velocità supersonica. Quando si subisce un’accelerazione di 3,6 Gs per più di sei secondi, il paracadute frenante si attiva. Stavo roteando ed era difficile stabilire la mia accelerazione. Ma sentivo di avere la situazione sotto controllo e che non sarei morto. Tuttavia, non potevo sapere quanto mancava all’apertura del parafreno. Alla fine è andato tutto bene, però è stato molto difficile. Ecco perché Joe ha detenuto il record per 52 anni. Molte persone hanno sottovalutato la sua impresa».