Achille Varzi, la Repubblica 18/12/2012, 18 dicembre 2012
SALVIAMO LE NOTE A MARGINE
[Bayle Ofoster Wallace, il commento vale più del testo] –
Dopo avere ucciso la pagina, protagonista incontrastata dell’era di Gutenberg, gli eReader stanno cominciando a restituirci almeno i numeri di pagina. C’è speranza che ci vengano restituite anche le loro umili appendici, le note a piè pagina? Adoro le note. Belle o brutte che siano, acute o banali, stimolanti o irritanti, quando leggo un testo la mia attenzione è catturata soprattutto da loro. Un’attrazione irresistibile, quasi morbosa. Eppure stanno scomparendo anche nelle nuove versioni, cartacee, dei classici. Per molti lettori sono la parte più inutile di un testo. Per altri sono la parte più tediosa. Per altri ancora, una fastidiosa distrazione. Noël Coward, per esempio, diceva che fermarsi a leggere una nota a piè pagina è come scendere per aprire al postino nel bel mezzo di un amplesso. Non per me. Per me le note sono spesso la parte migliore, e tornare al testo principale è come rientrare in una pomposa sala conferenze dopo una pausa in corridoio a tu per tu con l’oratore, da soli, in confidenza. È come se lì, in quei momenti sottovoce, l’autore uscisse dai panni ufficiali e rivelasse i suoi come e i suoi perché. È lì, in quel mondo in corpo minore, che mi sembra di capire davvero che cosa mi voglia dire; è nel sotterraneo regno degli ivi, degli ibid. e dei loc. cit. che emergono le tracce del percorso. E spesso il percorso è più istruttivo della destinazione finale. Naturalmente c’è nota e nota, e in certi casi l’autore non c’entra per nulla. Penso ad esempio alle annotazioni che costituiscono l’apparato di commento a un testo classico, come la Commedia di Dante o l’Ulisse di Joyce. Lì le note sono dei curatori. Sono successive al testo, e si può discutere se vadano lette prima, dopo, o durante la lettura del medesimo. Si può discutere se siano un impedimento che sbarra l’accesso all’opera ovvero l’apriti sesamo senza il quale è impossibile penetrare nella grotta del tesoro, come scriveva Valerio Magrelli qualche tempo fa su Repubblica. Storicamente le prime note a piè pagina nacquero proprio così: figlie di quelle note in margine che raggiunsero l’apice con i glossatori del Corpus iuris giustinianeo della Scuola di Bologna e che toccarono il fondo (tipograficamente) circa un secolo dopo Gutenberg, con la pubblicazione della Holie Bible di Richard Jugge. Non riuscendo a posizionare tutte le note in margine relative a un passo di Giobbe, lo stampatore elisabettiano non trovò altra soluzione che spostare le ultime due ai piedi della pagina, e da quel momento l’idea si affermò così rapidamente che nel giro di poco tempo le note in calce soppiantarono quelle in margine. Si diffusero così tanto e con tal gioia dei commentatori — i quali potevano finalmente dare sfogo a tutta l’erudizione di cui erano capaci — che a un certo punto Gottlieb Rabener pensò bene di scrivere una dissertazione che consisteva soltanto di note in calce, lasciando ad altri il compito di produrre il testo da lui annotato con abile prolessi. (Non so che darei per possedere una copia di quelle Noten ohne Text, del 1745. Nel frattempo ho comunque collezionato qualche opera recente basata sulla stessa idea. La mia preferita è Ibid: A Life, di Mark Dunn, un romanzo scritto interamente sotto forma di note sopravvissute a un testo andato perso. Ma non sono da meno Bartleby e compagnia, dello scrittore catalano Enrique Vila-Matas, Armand V., del norvegese Dag Solstad, o Banlieue, del francese Paul Fournel, il “secrétaire définitivement provisoire” dell’Oulipo.) Ben altra cosa sono i casi in cui è l’autore stesso ad annotare il proprio testo. È lì, dinanzi a quelle protesi argomentative e documentali, che scatta l’attrazione fa- tale. Non so dire con esattezza quando sia nata questa pratica, rapidamente assurta a norma soprattutto in ambito saggistico. Più o meno col Dizionario di Pierre Bayle. Ma concordo con coloro che indicano in Edward Gibbon il suo primo grande maestro. I sei volumi della Storia del declino e della caduta dell’Impero romano sono al tempo stesso il capolavoro della storiografia solenne ed erudita e l’apogeo della nota a piè pagina sussurrata, confidenziale, mordace. Dall’appunto sull’abate Le Boeuf, «antiquario, il cui nome era felicemente espressivo de’ suoi talenti», ai commenti su Sant’Agostino, che «troppo spesso prende da altri la sua erudizione e da se stesso i suoi argomenti», le note di Gibbon sono una miniera di precisazioni e osservazioni consegnate al lettore come un dono personale, e senza le quali il testo principale sarebbe tanto noioso quanto zoppicante. Non a caso la prima edizione in quarto recava un vero e proprio Advertisement to Notes in cui l’opera si diceva «suscettibile di informazione come di intrattenimento». Chi ha letto Gibbon non riesce più a leggere un testo senza leggere le note, con buona pace di Coward e di coloro che ne farebbero a meno. Beninteso, non sempre il fondo della pagina ci regala le gemme di cui era capace il Voltaire britannico. Col passare del tempo le note sono diventate una sorta di un contenitore dell’indifferenziato. Se da un lato è sopravvissuto lo spirito originale — come quando Simon Winchester, nella sua storia dell’Oxford English Dictionary, ci parla del benefattore Gibbs come di «un buon cacciatore e un abile tiratore» (nota in calce: «Abbastanza abile: nel 1864 si fece esplodere la mano destra») — dall’altro è pur vero che nei testi recenti buona parte del materiale in nota si trova lì perché l’autore non è capace di integrarlo nel testo o è troppo pigro per farlo, e non sa decidersi a gettarlo via. Tuttavia anche così, anzi proprio per questo, le note continuano a sussurrare verità preziose. Ci sono quelle in cui ci si premura di documentare le affermazioni del testo e quelle in cui invece si vomitano tutte le letture che l’autore non ha saputo digerire. Ci sono le note scritte per prendersi cura delle debolezze del testo senza appesantirlo troppo e quelle scritte invece per appesantire volutamente la pochezza di quanto detto. Ci sono note scritte per rispondere ai referee, nelle quali ci si sforza di fare i conti con un’obiezione importante, e quelle scritte per farla franca, nelle quali l’autore dimostra di non aver capito l’obiezione ma la cita comunque sperando che basti. Si va dalle note meticolose («Citiamo nella traduzione di V. Monti, quarta ed. riveduta ») a quelle pedestri («Così scrive Omero»); da quelle informative («Questa tesi risale a …») a quelle inutili («Com’è risaputo …»); da quelle timidamente autoreferenziali («Mi permetto di rinviare al mio…») o spudoratamente autocompiacenti («Come ho già spiegato in …») sino a quelle, assai diffuse nel nostro Paese, tanto gratuite quanto ruffiane («Ricordo l’eccellente saggio di …»). Ci sono le note oneste («Devo questo riferimento a …») e quelle disoneste, di seconda mano, diciamo pure rubate, nelle quali l’autore cita un testo che non ha mai letto e non saprebbe nemmeno come rintracciare, ma che ha trovato citato da qualche parte e tanto basti. E poi ci sono le note lunghe. Credo che il record spetti alla nota u all’ultimo paragrafo del Capitolo 7 del Volume 3 della Parte 2 della History of Northumberland, del rev. John Hodgson (1840). La bellezza di 264 pagine. Comincia a p. 157, lasciando solo due righe al testo principale. Il testo prosegue in queste condizioni ancora per qualche pagina e si spegne del tutto alla 174. Tecnicamente, il capitolo finisce lì. Ma la nota continua. Si impossessa della pagina intera e continua da sola. Continua imperterrita fino a p. 421. E siccome non si può mettere tutto in una nota, non mancano le sotto-note (ben 659), alcune delle quali rinviano a loro volta a delle sotto-sotto- note. Un record che sa di follia. Ma ditemi voi se non ci vuole anche del coraggio a scrivere una nota così, e se non è in quella nota, prima ancora che nel testo principale, che si apprezzano lo stile e la maniacale cura per i dettagli — costi quel che costi — del suo autore. Poteva tranquillamente farne un nuovo capitolo, anzi poteva farne un volume a sé stante. Il suo curriculum si sarebbe allungato. E invece no. Quel materiale andava in nota. Era una nota: una lunga, generosa cortesia all’amato lettore. Ebbene, vorrei tanto che tutto ciò restasse, che ci venisse restituito. Le note rivelano più di quanto non dicano. Da loro trapelano passione e pregiudizi, decisioni e passi falsi, onestà e pedanteria, charme e trascuranza. Ce ne prendiamo la responsabilità, autori e lettori insieme. Ma ridatecele. Non sarà così difficile. Anche gli audiolibri hanno dovuto affrontare il problema e a modo loro l’hanno risolto. Ascoltando David Foster Wallace che legge Considera l’aragosta si capisce bene quando si passa dal testo principale alle divagazioni in calce, per lui così importanti. Il testo delle note ci è davvero sussurrato, con la voce giusta al momento giusto. Perché nell’edizione eBook sono finite tutte in coda al testo? Un po’ di rispetto. Anche la versione Kindle della Storia delle Note di Chuck Zerby ( The Devil’s Details, 2002) è fatta così: volendo si può cliccare, e cliccando si accede alle note. Ma non sono più a piè pagina come nell’originale; sono tutte a fine testo. Anche quando sostengono, con dovizia di esempi, che le note a fine testo sono una disgrazia.