Federico Rampini, la Repubblica 18/12/2012, 18 dicembre 2012
IL RICCO RILUTTANTE
NEW YORK
Si salvi chi può! Ma a Montecarlo o a Singapore? La Grande Paura dei ricchi dilaga nel mondo intero. In Francia Gérard Depardieu segue l’esempio di Bernard Arnault, rinuncia alla cittadinanza per sottrarsi alla nuova aliquota del 75% sui redditi oltre il milione introdotta da François Hollande. A strappare il passaporto, ma quello americano, ci ha pensato ancora prima di loro Eduardo Saverin, il co-fondatore di Facebook. Pur di mettere al riparo il suo patrimonio di due miliardi di dollari l’ex socio di Mark Zuckerberg ha preso la cittadinanza di Singapore. A rischio di non poter mai più mettere piede negli Stati Uniti. La scelta di Saverin risale a molti mesi fa, quando ancora il repubblicano Mitt Romney — nonostante i suoi conti bancari alle Caimane — sembrava in grado di conquistare la Casa Bianca. Oggi la fuga dell’ex di Facebook sembra un gesto quasi profetico.
Perché proprio durante questo weekend, i ricchi d’America sono stati “mollati” dal loro partito di riferimento. Il repubblicano John Boehner, presidente della Camera dei deputati dove la destra è maggioritaria, ha fatto una concessione significativa a Barack Obama. I repubblicani accettano di alzare le aliquote sui contribuenti che guadagnano oltre un milione l’anno. Per Obama la soglia della ricchezza andrebbe situata più in basso, a partire dai 250.000 lordi annui. Comunque la “resa” di Boehner preannuncia l’arrivo di una stangata certa su 433.000 famiglie, lo 0,3% degli americani più ricchi. Solo di imposta sui redditi, l’aumento medio sarà di 134.000 dollari l’anno per questi contribuenti facoltosi. Era scritto nel risultato elettorale del 6 novembre: Obama in campagna elettorale ha “rubato” a Occupy Wall Street lo slogan contro «l’un per cento di privilegiati», promettendo una politica redistributiva in caso di vittoria.
Anche in America adesso c’è una sorta di fuggi fuggi. Non tanto geografico come in Francia, bensì finanziario. Più silenzioso del caso Depardieu, ma ben più esteso. Perché negli Stati Uniti oltre all’Irpef saliranno molte altre imposte. Se si arriva al “precipizio fiscale” di fine anno, la mannaia dell’austerity colpirà pesantemente i ricchi. Tornerà in vigore, per esempio, la tassa di successione al 55% (con una franchigia solo fino a un milione di dollari). Se invece repubblicani e Obama trovano un accordo onnicomprensivo sulla riforma fiscale, è probabile che i ricchi perdano la deducibilità degli interessi passivi sui mutui, e la detrazione delle donazionipermecenatismo.L’aliquota sul capital gain, oggi appena del 15%, passerà al 39%. Mai una vigilia di Natale è stata così frenetica di lavoro per consulenti fiscali e gestori finanziari: a chi ha plusvalenze sui portafogli azionari consigliano di vendere prima di Capodanno, per pagare ancora la tassa inferiore. Prima dell’Apocalisse.
Non è la prima volta nella storia che i ricchi vivono una Grande Paura. Senza risalire alla Rivoluzione francese del 1789 o a quella bolscevica del 1917, ci sono esempi ben più recenti di fughe illustri. Il barone Guy de Rothschild che nel 1981 si auto-esilia dalla Francia dopo che François Mitterrand gli ha nazionalizzato la banca di famiglia. Il tennista Bjorn Borg che si ribella alla tassa patrimoniale svedese e sceglie Montecarlo, imitato da tanti sportivi di grido. Stavolta però la Grande Paura ha una dimensione nuova. La interpreta alla perfezione proprio Depardieu nel suo grido di rabbia: «Successo, creatività e talento vengono penalizzati ». I ricchi si svegliano da un lungo sogno meraviglioso, iniziato
all’epoca di Ronald Reagan e Margaret Thatcher. Una Età dell’Oro in cui furono idolatrati. Più di un trentennio segnato dalla dilatazione delle diseguaglianze sociali, e al tempo stesso da una cultura di darwinismo sociale: il denaro come segnale della qualità delle persone, premio a chi genera ricchezza collettiva, giusto riconoscimento ai motori della crescita. La grande crisi scoppiata nel 2008, e dalla quale non siamo ancora usciti, ha un effetto analogo alla depressione degli anni Trenta: ha travolto un sistema di valori, un paradigma.
Di colpo i ricchi non si sentono più amati. Lo s’intuisce da un’altra notizia, che viene da Londra. Il 22% dei milionari inglesi sta valutando di lasciare la Gran Bretagna entro due anni: «Non a causa delle tasse, ma delle condizioni meteorologiche, della criminalità e dei comportamenti anti-sociali». Questo rivela la conclusione di un sondaggio Lloyds Tsb. Ma è credibile che i ricchi inglesi abbiano scoperto solo oggi il clima del loro
paese? Che si sentano insicuri sotto il governo conservatore di David Cameron? Più probabile è che anch’essi sentano un cambio di atmosfera, una rottura culturale, la fine di un’èra che legittimava la loro opulenza.
Non tutti i ricchi sono in preda al panico, per carità. Negli Stati Uniti ci sono voci di buon senso che anche ai vertici della piramide sociale auspicano da tempo politiche più egualitarie. Warren Buffett e Bill Gates, che di anno in anno si contendono il primo e secondo posto nella classifica della ricchezza, fanno parte di questa categoria.Buffettdiedeunamano a Obama in campagna elettorale denunciando il fatto che «con il sistema fiscale ereditato dagli sgravi di George W. Bush, la mia segretaria viene tassata ad un’aliquota superiore a quella che colpisce me» (per la differenza tra Irpef e tassazione agevolata sui capital gain). Gates ha in larga parte diseredato i figli, decidendo in anticipo che la maggiore fetta della sua fortuna andrà alla fondazione filantropica che porta il suo nome. E ha giustificato la sua scelta con una visione del capitalismo: «Se crediamo alla meritocrazia, l’istituto dell’eredità è una contraddizione rispetto alla necessità di essere competitivi. Quando l’America vuole vincere medaglie alle Olimpiadi, non seleziona nella sua squadra i figli degli olimpionici di una generazione fa». Buffett e Gates concordano su una previsione: aumentando le tasse sui ricchi non ci saranno conseguenze negative sulla crescita, e neppure sul mecenatismo che ha così tanta importanza qui in America. Buffett, soprannominato “il saggio di Omaha” per il suo acume negli affari, non ha dubbi: «In vita mia, non ho mai preso una decisione d’investimento basandomi su considerazioni fiscali”. Se qualcuno fugge come Savarin verso Singapore, altri lo sostituiranno: ricchi russi, cinesi, brasiliani stanno investendo nel mercato immobiliare di Manhattan, per la gioia del sindaco Michael Bloomberg (anche lui un “ricco illuminato”) che in questa città applica le “aliquote Imu” più alte d’America.
Attenti però, a non gridare vittoria troppo presto nella guerra alle diseguaglianze. La Grande Paura dei ricchi è un fenomeno innescato dalla crisi dei bilanci pubblici, e dalle politiche di austerity che stanno rastrellando entrate fiscali sui ceti più abbienti. C’è però un’altra dimensione della ricchezza, che i governi stentano a colpire. Lo dice Larry Summers, ex segretario al Tesoro di Bill Clinton e consigliere di Obama: «Resta un grosso problema nella tassazione societaria, troppe imprese eludono le imposte grazie alle sedi offshore». Un esempio concreto: Google fa “affluire” tutto il suo fatturato europeo nella sua sede legale in Irlanda (paese a tassazione ridotta), da lì paga a se stessa delle royalty a una società di diritto olandese (altri privilegi fiscali), la quale infine versa profitti a una filiale…di se stessa, nel paradiso fiscale di Bermuda. Dove l’aliquota sul reddito societario è molto facile da ricordare: zero. Se vogliamo fare sul serio nel ridurre le spaventose diseguaglianze di carico fiscale, ammonisce Summers, la prossima battaglia deve avvenire su questo terreno.