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 2012  dicembre 18 Martedì calendario

“LE MIE PRIGIONI DI PUSSY RIOT” MARJA E L’ASSURDO LAGER DI PUTIN

COLONIA PENALE N.28 BERËZ-NIKI REGIONE DI PERM’—
Se ti addormenti mentre leggono il regolamento la paghi. Se hai la targhetta del nome mal cucita la paghi. Se durante l’appello hai un bottone slacciato la paghi. Non c’è un inizio, in questa storia. Anzi, non c’è nemmeno una storia. C’è qualcosa di assurdo che prende forma per tramite delle parole. Tra l’altro, dubito che qualcuno vorrà confermarle, le mie parole. In tanti le confuteranno, piuttosto. «Tutto regolare », vi diranno. Magari senza troppa convinzione, all’inizio; ma in un
crescendo continuo di entusiasmo. Fino a sostenere, anzi, che va «tutto bene». Perché «alla colonia penale 28 va tutto bene», e ve lo diranno detenuti, personale e difensori dei diritti umani.
La 28 è la Colonia Penale (IK) femminile della regione di Perm’. Intorno solo fabbriche e tajga. Il fatto che — da ex militante ecologista — io sia finita in un carcere dove si respirano veleni ha dell’ironico. C’è solo grigio, intorno. Il colore di partenza può anche essere un altro, ma un tono di grigio c’è sempre. E ovunque: case, cibo, cielo, parole. È l’antidoto alla vita di un piccolo spazio chiuso.
Qui si arriva solo in tradotta. Nel mio caso, da Mosca, dopo tre carceri di transito (Kirov, Perm’ e Solikamsk) e tre viaggi tra vagoni senza finestre (gli «stolypin») e una lunga serie di camionette. Sull’ultima, quella che finalmente si avvicina al ferro alto della cancellata, siamo in diciannove. Diciannove «nuove»: nuove operaie tagliatrici, nuove cucitrici e ausiliarie.
Dall’ingresso alla stanza dove ci perquisiscono arriviamo a piedi, piegate sotto le nostre sacche. Io ne ho tre. Insieme fanno quasi il mio peso. Entriamo in un edificio cinto da un muretto: il carcere (e le celle) di isolamento punitivo. Lì ci spogliano e ci spediscono in quarantena con un camice a scacchi. Uguale per tutte. In quarantena comincia l’adattamento. O meglio, il callo inizia a formarsi. Si impara a saltare giù dal letto alle cinque e mezza del mattino e a correre in bagno (ma solo io mi ostino a chiamarla «bagno», quella stanza): tre lavandini e due water per quaranta detenute; e svelte, che alle sei, a gruppi di dieci, c’è da correre in cucina per la colazione. Prima, però (sempre che si ambisca a bere una tazza di tè), c’è da trovare
il tempo per passare al deposito, là dove si conserva ogni cosa, cibo compreso. Anzi no: siccome non si può lasciare il pigiama sotto il cuscino, la tappa al deposito è obbligatoria. Dopo due settimane di acqua gelata non sento più le mani; potrei usare l’acqua calda, certo, ma c’è la fila e c’è da correre anche lì. E ho già da correre per altri sei mesi. Però ci sto facendo il callo. Ce lo stiamo facendo tutte quante, anzi, in questo nostro «albergo regolamentato». Con regole — il Regolamento interno — che vanno studiate a memoria. Non scherzo. Non crediate che basti una volta. Ce le ripetono (leggendocele) ogni giorno, e ogni giorno noi le ascoltiamo. La stanza dove questo accade si chiama «Regolamento interno» anche lei, e sullo stipite della porta c’è proprio una targhetta che lo dice: Stanza Regolamento Interno. E nella Stanza del Regolamento si va ogni giorno a sentire il Regolamento. Assurdo? Neanche un po’. Per non addormentarmi (c’è una telecamera che ti controlla, in un angolo), vado a spalare la neve in cortile. Ogni baracca ne ha uno (non è un cortile, in realtà, ma un quadrato di terra cinto da filo spinato).
C’è da inventarsene più d’una, per non addormentarsi: lego le sigarette con un filo (niente pacchetti: alla prima
perquisizione svuotano il contenuto in un grosso sacco e buttano via il pacchetto), tolgo e rimetto i fiammiferi dentro la scatola, cucio e ricucio la targhetta col nome sulla divisa, censisco pulci e pidocchi. Tutto per non addormentarmi. Perché se ti addormenti mentre leggono il regolamento la paghi. Se hai la targhetta del nome mal cucita la paghi. Se durante l’appello hai un bottone slacciato la paghi.
C’è un sistema, qua dentro, di «elevatori sociali». È una serie di criteri che se osservati o ignorati permettono alla commissione che concede la libertà sulla parola di capire se il detenuto si è redento o meno. E ci leggono ogni giorno pure quello. Non infrangere il regolamento, lavora, presenzia a ogni sorta di iniziative, vai regolarmente in biblioteca, dallo psicologo e a pregare (eppure il nostro è uno Stato laico, non ce lo ripetono in continuazione?). Ostenta le tue relazioni sociali e mantieni i contatti con i familiari.
Il detenuto compie ogni singola azione per un segno di spunta nella lista della «parola». E non per una crescita individuale. Nella mia ultima seduta, la psicologa ha paragonato questo processo alle tappe di una carriera professionale, chiamandosi in causa in prima persona:
«Funziona così anche per noi militari », mi ha detto. È una verità amara: mezza Russia vive come chi ha una condanna da scontare. Non serve gente di carattere. Serve gente dal callo facile. «Tanto non cambia mai niente», ci troviamo a commentare, all’unisono, io e un’altra detenuta. Perché noi non serviamo a nessuno — la mia deduzione esce da sola, in un sussurro. E in quell’istante preciso, a notte fonda, in un cambio di turno in fabbrica, per un attimo mi sento — orribilmente — tutt’uno con una persona che è rinchiusa da più di vent’anni; tutt’uno nell’inutilità, tutt’uno nell’essere un aborto di quanto c’è di oggettivo. Della «società», del potere. E figlia di quel mondo morto che, paradossalmente, si riproduce in chi abita la colonia penale. Non ci vuole molto, per uscire sulla parola. Basta cucire dodici ore al giorno per un migliaio di rubli al mese, basta non scrivere reclami, incastrare qualcuno, fare la spia, non fiatare mai e sopportare sempre.