Marco Belpoliti, La Stampa 18/12/2012, 18 dicembre 2012
ARCHITETTURE INVISIBILI SOTTO LE METROPOLI
[Dalle reti elettriche a quelle informatiche, le infrastrutture stanno cambiando le nostre città. Una mostra alla Triennale spiega come] –
Nel 1961 Lewis Mumford pubblica il suo celebre saggio La città nella storia ; l’ultimo capitolo intitolato La città invisibile descrive la metropoli del presente e del futuro che si sta progressivamente smaterializzando. La Megalopoli cresce a dismisura, scrive, espandendosi verso il fuori, ma al tempo stesso la città è penetrata da raggi ed emanazioni invisibili che non possono più essere individuabili con i metodi di osservazioni consueti. Mumford, da cui Calvino ha preso il titolo per il suo celebre libro, sta descrivendo quelle che di lì a poco sarebbero diventate le nuove infrastrutture. Non più solo cavalcavia, ponti, gallerie, viadotti, tunnel, stazioni, aeroporti, canali, dighe, condutture, bensì tutte le cose che stanno «sotto» la città e la rendono una rete interconnessa (luce, acqua, gas, telefoni, energia, fognature, informazioni). Le infrastrutture, scrive Bernardo Secchi nella voce omonima nel primo volume di Architettura del Novecento (Einaudi), sono riferite di solito a tutto ciò che riguarda la mobilità di persone, cose, immagini, informazioni e idee, per quanto oggi «tutto ciò che fa parte del mondo fisico e virtuale può essere considerato infrastruttura di qualcosa d’altro». Una definizione che ci fa guardare in modo diverso un distributore di benzina, ma anche un supermercato, una centrale elettrica e persino un negozio di elettronica o un chiosco-bar.
L’architetto Franco Purini, nel saggio compreso nel catalogo della mostra «L’architettura del mondo. Infrastrutture, mobilità, nuovi paesaggi», curata da Alberto Ferlenga alla Triennale di Milano, sottolinea che dal significato tradizionale di infrastruttura, come ciò che sta «sotto» la città, siamo passati a quello di ciò che sta «tra». Se si segue Bruno Zevi le infrastrutture non sarebbero in senso proprio neppure delle architetture, dal momento che non possiedono uno «spazio interno». Eppure, come fa notare Purini, citando Kevin Lynch e Donald Appleyard, autori di The wiew from the road , una loro spazialità esiste, persino quella prodotta dal movimento del punto di vista che si ha a bordo di un’automobile. E allora come porsi oggi davanti alle infrastrutture che hanno modellato, e ancor di più modelleranno il nostro paesaggio italiano? Davanti ai plinti di cemento dell’Alta velocità che attraversa l’Italia da Nord a Sud, e presto da Est a Ovest, o alle gallerie e ai viadotti della variante di passo dell’Autostrada del Sole, e ancora alle nuove metropolitane di Napoli, Torino, Milano? Una cosa di sicuro è già cambiata in seguito alla costruzione di questi manufatti: la mappatura dello spazio. Nel caso della rete ultraveloce dei treni si è prodotta una vera e propria città lineare; la tradizionale geografia metrica appare tutta da rifare, se in treno da Bologna a Milano, da centro a centro, oggi nelle ore di punta s’impiega meno tempo che da Milano e Bergamo in automobile.
Molte delle nostre carte geografiche – genere che sembra in apparenza in disuso a causa dei navigatori satellitari – sono da ridisegnare, dato che il tempo di percorrenza modifica la forma stessa dello spazio, e la sua rappresentazione. Il problema che la mostra, e il bel catalogo (a cura di Ferlenga, Marco Biraghi e Benno Albrecht), pongono è però prima di tutto estetico, per via dei problemi che l’esistenza d’infrastrutture fuori scala produce. E, per quanto nella prima grande sala dell’esposizione, su piani di cemento armato bianco-grigi, siano visibili esempi virtuosi di strutture reticolari (ponti, stazioni, canali, ecc. soprattutto all’estero), come non pensare a quelle realtà in cui l’infrastruttura ha prodotto invece un degrado, separando e annichilendo le abitazioni, i quartieri, e persino gli spazi vuoti, che attraversa? Nel suo testo Purini riflette a questo proposito sul cambiamento avvenuto nell’idea di tempo. Nella modernità la linea retta tra due punti era, anche strutturalmente, la soluzione migliore per ogni tipo d’infrastruttura: velocità e linearità dominavano incontrastate. Un modello «esclusivo» che separava invece di unire. Ora che il paradigma temporale della tarda modernità è mutato, a vantaggio del tempo, che Purini definisce «inclusivo» – il tempo come bene fondamentale, oggetto primo del consumo –, cosa si deve fare? Che destino devono avere le infrastrutture che fungono da connettori spaziali? La città diffusa attuale necessita che ogni sua parte sia raggiungibile, eliminando le barriere che differenziano gli spazi. Questo accade per via del valore consumistico che la città ha assunto, e il tempo al suo interno: la rete rende equivalenti tutti i punti collegati, non c’è più gerarchia, con buona pace delle città storiche. Tuttavia, noi viviamo, come mostra il percorso espositivo milanese, in una realtà scissa: da un lato, gli spazi sono fruibili in modo caotico, confuso, mescolato, incoerente; dall’altro, ogni luogo aspira a essere migliore, più fruibile e vivibile. Probabilmente come aveva intuito Mumford saranno le reti immateriali a darci la risposta. L’architettura come può rispondere a tutto questo? Riuscirà a uscire dall’autismo e dall’autoreferenzialità degli ultimi decenni, come scrive Ferlenga, per darci esempi positivi di connessione? Difficile dirlo. Una cultura per i tempi di crisi è quanto mai necessaria, con urgenza. Nelle infrastrutture il posto dei mammut del XX secolo sarà ora a disposizione delle reti sottili del XXI?