Aldo Cazzullo, Corriere della Sera 18/12/2012, 18 dicembre 2012
Salone delle assemblee della Banca d’Italia, una sera all’inizio dell’agosto 1982. Il governatore Ciampi e il ministro Andreatta annunciano di aver designato alla guida del Nuovo Banco Ambrosiano un avvocato di Brescia, il professor Giovanni Bazoli
Salone delle assemblee della Banca d’Italia, una sera all’inizio dell’agosto 1982. Il governatore Ciampi e il ministro Andreatta annunciano di aver designato alla guida del Nuovo Banco Ambrosiano un avvocato di Brescia, il professor Giovanni Bazoli. I rappresentanti dei sette istituti che hanno accettato la proposta respinta dalle grandi banche di interesse nazionale — farsi carico dell’Ambrosiano dopo il crac e la misteriosa morte di Calvi — si guardano attorno: nessuno di loro conosce il nuovo presidente. Fino a quando non si alza in piedi un cinquantenne dagli occhi azzurri che dice: «Bazoli sono io. Ma non ho ancora accettato. Ho anzi molte riserve». Accettò. Salvò l’Ambrosiano, e contribuì a costruire la più grande banca italiana, un pezzo alla volta: Cattolica del Veneto, Cariplo, Comit, Sanpaolo. Ma quell’episodio ormai remoto (oggi che di anni Bazoli ne compie ottanta) racchiude diversi elementi della sua personalità. Innanzitutto, il carattere schivo, il disinteresse per la notorietà: divenuto uno tra gli uomini più potenti d’Italia, Bazoli continua a non essere molto conosciuto dal grande pubblico; non va mai in tv, sui giornali fa un’intervista ogni due anni, se scrive un libro è di argomento biblico («Abramo Bazoli» lo chiama scherzosamente il sito Dagospia). Il secondo aspetto è il carattere riflessivo, che di primo acchito può apparire indeciso: Bazoli è uno di quegli uomini che introiettano le decisioni importanti, le somatizzano, le fanno diventare parte di sé; poi tutto accade molto rapidamente. Il terzo aspetto è quel misto di necessità e di volontà, di calvinismo e di cattolicesimo che definisce la sua biografia. Bazoli si sente «cattolico manzoniano» (l’ha detto anche al meeting di Cl a Rimini). Manzoni è un personaggio-chiave del suo universo morale. Il punto di partenza è il Manzoni dell’Adelchi, che ha come orizzonte l’accettazione del proprio destino («Godi che re non sei, che chiusa all’oprar t’è ogni via…»). E il destino con Bazoli non è stato sempre benigno: perse la madre quando era ancora in fasce; sua cognata fu uccisa dalla bomba fascista di piazza della Loggia; suo fratello morì per le conseguenze di uno scontro stradale; lui stesso ha sofferto per i postumi di un incidente. Ma il punto d’arrivo è il Manzoni dei Promessi Sposi, che interpreta le traversie come la preparazione a un approdo, perché «la Provvidenza non turba mai la gioia dei suoi figli se non per prepararne loro una più certa e più grande» («senza l’aiuto della Provvidenza non avrei fatto nulla» disse lui a proposito della fusione Intesa-San Paolo. E tra i suoi libri di formazione c’è la Storia della Colonna infame, in cui trovò la necessità dell’impegno per una giustizia sostanziale). L’altro personaggio-chiave dell’universo di Bazoli è Giovanni Battista Montini. Il fratello di Paolo VI, Lodovico, era uno dei soci dello studio legale avviato dal nonno di Bazoli, Luigi, tra i fondatori del Partito popolare, ed ereditato da Stefano, suo padre, eletto alla Costituente, e da suo zio Ercoliano, che vi associarono Gianni Martinazzoli, il fratello di Mino (si chiama Stefano l’unico figlio maschio di Bazoli; Francesca e Chiara sono le due figlie femmine; la moglie, Elena Wuhrer, viene dalla famiglia degli industriali della birra). Tra i testi che il professore considera fondamentali c’è il testamento del Pontefice — «Benedico con speciale carità Brescia, Milano, Roma, la Chiesa intera…» —, in particolare là dove dice: «Sul mondo: non si creda di giovargli assumendone i pensieri, i costumi, i gusti; ma studiandolo, amandolo, servendolo». In questi anni Bazoli ha finito per diventare uno dei simboli dell’altra Lombardia, agli antipodi del berlusconismo — anche se quando l’8 dicembre 1999, all’indomani della prima del «Fidelio» alla Scala, Andreatta gli chiese di prendere il posto di Prodi alla guida dell’Ulivo, quella volta Bazoli rifiutò: il suo impegno doveva restare la costruzione della banca —, e di un mondo a volte minoritario in questa fase storica, che si riconosce nel cattolicesimo liberale di Rosmini, Tovini, Toniolo, nella Resistenza cristiana di Olivelli («Signore della pace e degli eserciti, Signore che porti la spada e la gioia, ascolta la preghiera di noi ribelli per amore»), e in ultima istanza il Vangelo, in particolare là dove dice che occorre essere «candidi come colombe e astuti come serpenti». Bazoli, per dire, è riuscito a battere Cuccia, quando nel ’94 sventò l’offerta pubblica ostile della Comit sull’Ambroveneto. Esito non scontato per chi, come dice provocatoriamente Carlo De Benedetti, «una banca neanche sa cosa sia». La differenza tra Cuccia e Bazoli non è tanto nel binomio tra finanza bianca e finanza laica, quanto nella distanza tra un capo avvezzo — per superiorità intellettuale e abbondanza di mezzi — a comandare quasi da solo, e un mediatore abituato a persuadere, accordare, alleare, cercando di trarre da tante piccole convenienze — e sacrifici — individuali il bene comune, e coinvolgendo capitali stranieri (dal Crédit Agricole a uomini di finanza) senza cedere le chiavi di casa. Spiega Carlo Bellavite Pellegrini, il docente della Cattolica che ha ricostruito la storia dell’Ambrosiano, che «il metodo Bazoli consiste nel dialogo e nel confronto. Costruire alleanze collegando personalità di diversa provenienza, cercando quello che unisce anziché quello che divide, evitando contrasti, e mantenendo sempre il foedus, vale a dire la parola data. Non a caso Andreatta parlava di lui come di un "federatore"». E comunque con Cuccia ci fu un riavvicinamento personale, quando si ritrovarono a discutere del dolore per la scomparsa di persone care: la moglie Idea Nuova Socialista per il banchiere laico, il fratello Luigi per il banchiere cattolico. La competizione con Cuccia lo avvicinò a un altro protagonista del dopoguerra, Giovanni Agnelli. Poco prima di morire, esattamente dieci anni fa, l’Avvocato «affidò» a Bazoli il «Corriere», il che spiega il peso che ha avuto in questi anni anche al di là dei pacchetti azionari, spesso d’intesa con il «cattolico romano» Cesare Geronzi. Entrambi, prima l’uno poi l’altro, obiettivi polemici di Diego Della Valle, che sull’onda della campagna di Matteo Renzi ha rilanciato il tema del ricambio generazionale. Una questione che il decano tra i collaboratori del «Corriere», Claudio Magris, giudica così: «Ogni stagione ha il suo lessico della volgarità, un paio di slogan ripetuti pappagallescamente. Ora è il momento della "rottamazione", riferita alle persone oltre una certa età; una stupidaggine che confonde il giudizio (che può essere anche giusto) su una classe politica o dirigente superata e inadeguata, la quale comprende pure persone niente affatto anziane, con l’età biologica».