Luciano Canfora, Corriere della Sera 15/12/2012, 15 dicembre 2012
NELLA SACRA FABBRICA DEI FALSI
Sono usciti quasi contemporaneamente due libri tra loro molto diversi che trattano — nell’ambito dell’inesauribile tema del «falso» — il medesimo problema: perché si fabbrica un falso. Si tratta del brillante ed efficace saggio di Bart Ehrman, Sotto falso nome (Carocci, pp. 266, 23) e dell’ironico e sottilmente melanconico romanzo di Sergio Valzania, La bolla d’oro (Sellerio, pp. 231, 13). Mentre uscivano questi libri si sgonfiava, risultando non più che un maldestro falso, il cosiddetto papiro (copto) della «moglie di Gesù», la cui gloria è durata poche settimane.
Nella Bolla d’oro, il potente accademico che proclama l’autenticità di un presunto crisobollo di Alessio III Comneno al fine di propiziare l’acquisto della «patacca» da parte di una banca, non esita di fronte al delitto. Per parte sua l’azienda investigativa incaricata di accertare la verità si limita ad ottenere la ritrattazione di costui in cambio del silenzio sull’omicidio. Se il fine del falsario è vagamente comprensibile, molto più chiaro è il fine dell’accademico che si è fatto garante dell’autenticità: denaro e potere. L’omertà tiene in piedi il sistema. Questo il senso della selleriana Bolla d’oro.
Il libro di Bart Ehrman ci porta invece molto indietro nel tempo, ci introduce nell’«officina» dei falsi presenti nelle «sacre scritture» pudicamente definiti apocrifi, o pseudepigrafi quando vengono rifiutati ma difesi a spada tratta la volta che siano entrati nel «canone». Perciò il titolo originale del libro appare più chiaro di quello adottato per la traduzione italiana: «Falsi: Scrivere in nome di Dio; perché gli autori della Bibbia non sono le persone che noi pensiamo che siano». Ehrman affronta con efficacia la questione partendo dalla massiccia attività di «falsari» che connota tutta l’antichità, né trascura la delicata questione dell’intenzionalità e dei fini che tali fabbricazioni si propongono. Quindi porta argomenti storici concreti e non esita a liquidare, con gli strumenti della filologia, l’attribuzione, meramente aprioristica e dommatica, all’apostolo Simone, detto Pietro, delle «Lettere» tramandate sotto il suo nome e entrate saldamente nel «Canone» neotestamentario.
Quale poteva essere l’obiettivo di colui che si faceva passare per «Pietro» e metteva in circolazione lettere scritte da lui? Evidentemente quello di far risalire il più indietro possibile nel tempo le tracce scritte delle origini cristiane. Il fine era dunque apologetico-dommatico e lo strumento era la creazione di testi da far passare come scritti da un uomo che fosse stato direttamente in contatto col protagonista principale (Gesù) ed attivo nella sua cerchia.
Nel 1861 Costantino Simonidis, il grande falsario greco tornato giustamente in auge in questi ultimi anni, il quale — oltre a prediligere Artemidoro ed altri geografi — era anche un esperto teologo, inventò, tra l’altro, un falso papiro contenente brani del Vangelo di Matteo. Abilmente vi mise dentro anche i righi finali, corredati di una data precocissima, vergata dal presunto antico copista. Il fine era sempre lo stesso: veniva così fabbricata la prova dell’esistenza, già a ridosso della morte di Gesù, di quel Vangelo.
Scoppiò uno scandalo quando la falsificazione fu svelata, eppure, ancora qualche anno fa, il teologo Carsten Thiede, nel suo libro «Jesus: Life or Legend» (uscito nel 1990) difendeva l’autenticità del Matteo di Simondis. (Una causa, sia detto in parentesi, più nobile di quella dell’Artemidoro).
Invece, non più che un burlone, o solo un propagandista di Dan Brown, è stato colui che ha creato il recentissimo papiro copto in cui Gesù direbbe: «Mia moglie...». Si può vedere in proposito l’intervista di Karen King al «New York Times» dello scorso 18 settembre, A questo punto però è stato proprio «L’Osservatore romano» a sfoderare le armi della critica e della filologia, la più eversiva delle discipline, per liquidare il maldestro manufatto. La si comprende questa reazione: il canone non si tocca, quantunque e comunque farcito del corso della storia.
Qui la riflessione dovrebbe toccare le importanti sfumature presenti all’interno della galassia cristiana. Tolleranza verso la critica, ovvero chiusura nei confronti di essa, furono i poli della dialettica che attraversò la cristianità nei secoli che vanno dalla prima edizione critica del Nuovo Testamento ad opera di Erasmo da Rotterdam alla condanna oscurantistica del modernismo, da parte di Pio X, all’inizio del XX secolo. Tensioni non dissimili attraversarono il mondo protestante, ma suscitando forse minore clamore. Un mondo a parte, compatto e immobile, fu invece quello della chiesa greco-ortodossa, il cui atteggiamento verso il corpus delle «scritture» resta sostanzialmente pre-critico.
Nella Bolla d’oro, di cui s’è detto in principio, il problema del falso viene sviluppato su due diversi piani. Per un verso c’è la trama affaristico-accademica, tutta «occidentale» e profana. Per l’altro verso c’è la magnifica narrazione di un viaggio per i conventi dell’Athos, da parte del protagonista dilettante detective nel quale l’autore — buon conoscitore dell’Athos — in parte si identifica. Questo viaggio pone il dilettante di fronte ad un ben più massiccio problema di falsi: le impensabili «reliquie» conservate in quei conventi (la mano della Maddalena, la cintura di Maria fatta di peli di cammello e così via). Il timido ma acuto viaggiatore, pur frastornato dalla sua logorroica guida, solleva il problema, di fronte a così prorompente paganesimo cristiano: «Come fate ad essere sicuri della loro autenticità?». E si sente rispondere: «Vedi, il monte Athos va preso nella sua interezza. È l’insieme ad essere autentico, non questa o quella delle sue singole parti. Pensa ad un edificio antico restaurato in occasioni successive, non smette di essere quello che era stato; non ti interessa se ogni pietra ogni mattone sia davvero quello originale!».
Magnifica teoria che — se esportata dalle nostre parti — potrebbe dare rinnovato slancio agli impenitenti «collezionisti che preferiscono mantenere l’incognito» dai cui cassetti ci giungono papiri greci e copti dal contenuto non di rado esilarante. In tal caso ci sarà solo da sperare nella saggezza dei direttori dei Musei.
Luciano Canfora