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 2012  dicembre 15 Sabato calendario

QUELLA GUERRA VALUTARIA (NON DICHIARATA) FRA LE MONETE GLOBALI

Gli addetti ai lavori in pubblico ne parlano così poco che sembra il problema non esista. Eppure è stato il tema di cui l’ultima riunione di vertice della Bce ha trattato di più, benché dalle dichiarazioni dei banchieri centrali europei dopo non si direbbe. Solo Mervyn King, governatore (uscente) della Bank of England e dunque esterno all’Eurotower, ha avuto di recente un attimo di candore: all’Economic Club di New York, poi in un’intervista al «Wall Street Journal», King ha detto che fra i grandi blocchi dell’economia globale esiste il rischio di una «guerra fra valute», perché indebolire della moneta a sostegno dell’export «potrebbe diventare uno strumento privilegiato nei prossimi anni per ritrovare la crescita». Il governatore della Bank of England è stato ottimista. Non è un problema dei «prossimi anni»: già giovedì scorso il Consiglio direttivo guidato da Mario Draghi alla Bce ci ha dedicato parecchio tempo. La riunione non ha prodotto decisioni, ma molti dei ventitrè uomini intorno al tavolo si sono espressi per un taglio del costo del denaro. L’obiettivo è soprattutto quello di ridurre il «valore esterno» dell’euro, cioè il tasso di cambio; o per lo meno evitare che la moneta si rafforzi troppo di fronte alle violente - e volute - pressioni ribassiste in arrivo dalla Federal Reserve sul dollaro americano, dalla Bank of England sulla sterlina e probabilmente tra poco anche dalla Banca del Giappone sullo yen. La Bce ha discusso di un taglio al tasso principale a cui presta denaro alle banche, il cosiddetto «refi» che oggi è allo 0,75%, ma soprattutto ha valutato l’idea di portare sotto quota zero il tasso sui depositi. Sarebbe la prima volta nella sua storia e in quella delle banche centrali nazionali dell’euro. Il tasso sui depositi (oggi a zero) è quello a cui la Bce remunera i conti delle banche commerciali conservati presso di sé. Portare in negativo (a -0,25%) questo strumento, significa che le banche private dovrebbero pagare la Bce per depositare i propri soldi a Francoforte. In teoria una svolta del genere dovrebbe spingere gli istituti a ridurre i depositi, impiegarli nell’economia e magari spostarli in parte anche su altre valute. Per questo, tagliare il refi e soprattutto il tasso sui depositi in teoria dovrebbe indebolire relativamente l’euro e l’Italia è uno di quei Paesi che ne ha disperatamente bisogno. Con un cambio attorno a 1,31 sul dollaro (circa uguale a un anno fa, ma ai massimi da 7 mesi) e una rivalutazione dello yen del 10% circa negli ultimi 12 mesi, la moneta europea è nettamente troppo cara per l’economia italiana, che negli ultimi anni ha perso almeno il 20% di competitività in media sull’area euro. Non è facile gestire una crisi di debito e una recessione così. Probabile dunque che a gennaio la Bce tagli il refi a 0,50%, più difficile (non escluso) che porti sotto zero anche il tasso sui depositi. Il problema è che, secondo molti osservatori, neanche questo basterà a frenare la spinta delle altre grandi banche centrali a svalutare. La Fed ha inchiodato i tassi a zero e continua a iniettare ogni mese 40 miliardi di dollari nell’economia americana. La Bank of England la segue a distanza. Dopo la scontata vittoria del liberal-democratico Shinzo Abe questo week end, anche il Giappone potrebbe prendere la stessa strada: all’Europa rischia di restare il tasso di cambio più alto, e quello di crescita più basso.
Federico Fubini