Siegmund Ginzberg, la Repubblica 15/12/2012, 15 dicembre 2012
IL VOLTO DEL POTERE
Stalin si guarda allo specchio. Ha le mani giunte come in preghiera. O come se se le sfregasse soddisfatto. Lo sguardo tra il divertito e il diabolico. Sembrerebbe puro realismo socialista celebrativo e retorico. Ma diabolica è solo l’ironia. La scena, il gioco delle luci, la composizione sono identici a quelli della Maria Maddalena penitente di Georges de La Tour. È una denuncia strepitosa del narcisismo del potere. Di tutti i poteri. E della tendenza che hanno a perpetuarsi anche quando cambiano nome: come fu per lo stalinismo senza più Stalin, fin nei nostri giorni di Putin, come è per il maoismo senza Mao. Vitaly Komar e Aleksandr Melamid lo avevano dipinto nei
primi anni ’80, quando erano già passati da Mosca a New York, in uno dei tanti, diversissimi periodi della produzione artistica della coppia, quello del loro cosiddetto “realismo socialista nostalgico”.
In un’altra sala campeggia un’intera serie dei ritratti volti mostruosamente “mutanti” di Oleg Tselkov, metafora del “socialismo dal volto disumano”, che già negli anni ’60 avevano anticipato, di decenni, le figure grottesche che in questi ultimi anni si sono affermate come uno dei tratti più caratteristici dell’arte d’avanguardia cinese (Geng Jianji, Fang Lijun o Yuen Mingjun). E ti viene una sorta di folgorazione: che in fatto d’arte sono stati i cinesi (oggi tanto apprezzati e celebrati) a imparare
dai sovietici (ancora un po’ ignorati rispetto ai cinesi). E, ancora, una sorpresa dopo l’altra, dai paesaggi di macerie industriali alla vodka e alla diossina di Oscar Rabin, che anticipano (già negli anni ’50) Chernobyl (ma anche Taranto), agli antesignani sovietici della lattina di zuppa Campbell’s e del Pop di Andy Warhol, agli omologhi russi dell’action
painting
à la Jackson Pollock (Vladimir Nemukhin e Lydia Masterkova), ai deliziosi album narrativi del padre del “concettualismo” russo Victor Pivovarov, al genio (e anche un
po’ “padre” misconosciuto) delle “installazioni”, Ilya Kabakov.
Confesso: non mi capita frequentemente di emozionarmi ad un’esposizione di arte contemporanea. Mi è successo per queste in corso alla Saatchi Gallery di Londra. Sono due. Una, davvero imperdibile, che raccoglie circa 400 opere della Tuskanov Family Foundation, ai piano superiori, intitolata
Breaking the Ice: Moscow Art 1960-80s.
L’altra nelle grandi sale ai piani inferiori con opere più recenti, soprattutto una straordinaria serie di gigantesche fotografie di
Boris Mikhailov, ritraenti barboni, prostitute e ragazzi di strada in Ucraina negli anni 1997-98. Quest’ultima è intitolata, prendendo a prestito una frase celebre di Stalin del 1935: «L’allegria è la caratteristica più saliente dell’Unione Sovietica». È forte, violenta, forse ci vorrebbe l’avvertenza: si sconsiglia ai teneri di spirito e di cuore.
La prima delle due mostre potrebbe invece, tanto per dare l’idea, essere definita una sorta di “continuazione” ideale della recente bellissima mostra sul Realismo socialista che avevamo visto
al Palazzo delle Esposizioni a Roma, una continuazione del senso del “dopo” e dell’“altro” in Urss. Se dalla mostra di Roma ero uscito divertito, e confortato che il terribile “Sots” non era di solo porcherie, da questa esco con l’impressione di assoluta scoperta. Forse perché conoscevo poco l’“avanguardia” sovietica di quegli anni rispetto a quella cinese dagli anni ’80 in poi. Strano: i fiori più belli talvolta sbocciano nei luoghi più inaspettati e impervi. Alcune delle cose migliori dell’arte contemporanea del Novecento sono nate là dove meno ce lo si poteva aspettare, dove essere artisti d’avanguardia significava essere ignorati, derisi, perseguitati, talvolta finire in galera o in esilio: nella Russia sovietica. Là dove il potere si auto-rappresentava con la propaganda e gli artisti lo esasperavano fino a trasformarlo in maschera. Mosca era stata con molto anticipo una delle capitali mondiali della grande arte contemporanea. Già all’inizio del Novecento Matisse e Picasso venivano collezionati più a Mosca
che a Parigi. È molto nota la vicenda delle “avanguardie” degli anni ’20 e ’30, che erano odiate da Stalin e fecero una brutta fine. La sorpresa è che ci sia stata una così straordinaria fioritura anche negli anni più bui dello
stalinismo senza Stalin.