Jaime D’Alessandro, la Repubblica 15/12/2012, 15 dicembre 2012
GIANCARLO GIANNINI “LA MIA VITA INVENTORE”
La sua seconda vita Giancarlo Giannini la racconta in una mattina assolata. Fra mille sigarette e diversi caffè consumati sulla terrazza di uno hotel di lusso in via Veneto. Fra tavoli bianchi come i camerieri che filano veloci e sedie di ferro. Gli occhi chiarissimi sono quasi trasparenti, il volto invece è quello segnato e complesso di un uomo di settant’anni con alle spalle oltre centoventi film e una candidatura all’Oscar nel 1977 per
Pasqualino Settebellezze di Lina Wertmüller.
«Faccio l’attore per caso», precisa lui fin da subito. «Per formazione sono un perito elettronico industriale e avrei dovuto fare quel mestiere se non fosse stato per un amico che a 19 anni mi convinse ad iscrivermi a un corso di recitazione. Ma ho comunque vissuto la carriera dell’inventore: ho progettato, brevettato e sono stato in Cina e negli Sati Uniti per far realizzare i miei apparecchi ». Di più: nel corso di trent’anni Giannini ha costruito giubbotti interattivi pieni di microchip per i suoi figli, guanti per la realtà aumentata, portachiavi intelligenti capaci di rispondere a comandi vocali.
Uno, il giubbotto, è finito anche in un film:
Toys
di Barry Levinson, anno 1992, con Robin Williams e Joan Cusack. Ai tempi il World Wide Web aveva sette milioni di utenti e Microsoft non aveva ancora lanciato il primo Windows. «Ho dormito pochissimo tentando di vivere due vite», continua Giannini accendendo un’altra sigaretta. «Se dormi al massimo sogni e io non sogno mai, è come se fossi morto. Di notte leggi, inventi, cucini. Quando fai l’attore s’imparano dei trucchi per gestire il proprio corpo. Quello per restare svegli l’ho appreso da Mircea Eliade che in
Tecniche dello Yoga
(Bollati Boringhieri) narra di come certi predoni del deserto abbiano imparato a dormire poco per spostarsi velocemente. Io ho fatto lo stesso, perché più tieni gli occhi aperti più vivi. E noi già sprechiamo l’esistenza con convenzioni idiote, carriere inutili, servilismo verso qualcuno o qualcosa».
Giannini narra, divaga, si perde di continuo. Passa dai ricordi dell’attore a quelli dell’inventore, dagli aneddoti ai fatti. Li confonde. Colpa, anche, delle diciotto telefonate di parenti, amici, agenti che arrivano durante l’intervista. E di costumisti. Lui seduce tutti affabile, dà le sue misure (un metro e 72 di altezza e taglia 52), controlla l’agenda e discute di lezioni venture al Centro Sperimentale di Cinematografia dove insegna. In strada intanto, la terrazza è al primo piano e affaccia su una curva di via Veneto, due tassisti romani si spintonano scambiandosi insulti. Un cliente rubato ha acceso la miccia. La scena sembra appartenere a un altro mondo. Ci interrompe e per qualche secondo ascoltiamo le loro voci.
«Inventare significa pensare a qualcosa che non c’è», riprende Giannini. «È una dimensione fondamentale perché devi capire cosa ti circonda e cosa davvero serve. Il giubbotto sonoro l’ho immaginato guardando i miei figli rimbecillirsi davanti al tv con un Commodore 64 che gli avevo regalato io alla fine degli anni Ottanta. Grazie a dei sensori emetteva dei suoni quando muovevi le mani. Era una sorta di batteria elettronica indossabile. Suonavi muovendoti. Jean-Louis Barrault (che ha recitato fra gli altri in
Les Enfants du Paradis
con Arletty,
ndr.),
una volta disse: l’attore con il suo corpo incide lo spazio, con la voce il silenzio.
Bellissima frase, avrei voluta dirla io».
Barry Levinson venne a sapere tramite un amico comune del giubbotto e lo volle nel suo film. Giannini accettò e per sei notti e sei giorni lavorò al nuovo prototipo. È stato solo uno dei tanti. Il guanto per la realtà aumentata invece gli è stato rubato: un’azienda americana copiò l’idea e Giannini le fece causa. La vinse, ma quando l’azienda stava fallendo. Lui nel frattempo era andato in Cina per trovare il modo di realizzare il portachiavi elettronico che di notte poteva dirti quale chiave esattamente stavi toccando. Non se ne fece nulla, i primi campioni di serie erano troppo voluminosi. Ma ricorda i pranzi epici e le bevute colossali con i suoi partner commerciali alla periferia di Canton. Il resto sfuma nella nebbia della memoria, assieme a tanti altri progetti lasciati a metà, idee realizzate nelle pause su un set all’estero. Come si trattasse di una pratica che acquista senso solo nel fare e mai nel finire.
«L’attore e l’inventore hanno molte cose in comune », spiega lui. «La pazienza ad esempio. Devi sempre iniziare da zero e stimolare la fantasia. Quando reciti per professione i premi addormentano e invece bisogna ogni volta ripartire da capo. La gente vive una vita troppo convenzionale, si adegua, si anestetizza. Io ho avuto una fortuna: a cinque anni ho fatto la scuola di aeromodellismo.
All’epoca significava costruire un modello pezzo per pezzo. Partivi dal disegno. Ci voleva una pazienza disumana. Ci voleva metodo. Ho tentato di insegnarlo ai miei figli, ma niente». Due avuti con Livia Giampalmo e due con Eurilla Del Bono, attrici tutte e due. «Oggi leggono i riassunti de
I promessi sposi sul
Web», si lamenta Giancarlo Giannini, ma ormai parla in generale. «Io quando cucino gli spaghetti li faccio bene. Anche quello è questione di metodo. Perché se li devi far male meglio non farli. E per la tecnologia è lo stesso».
Eppure lui va in giro con un BlackBerry con lo schermo scheggiato. I gadget di oggi non lo interessano. Anzi li disprezza, forse perché non appartengono più al suo mondo ma a quello dei figli. A Internet e ai riassunti delle opere di Manzoni. E
allora viene naturale chiedergli come mai abbia doppiato Raul Menendez, terrorista brillate e psicopatico di quel
Call of Duty: Balck Ops II
uscito dalla penna di David Goyer, fumettista e sceneggiatore che ha scritto fra gli altri la trama degli ultimi due
Batman
girati da Christopher Nolan. È il nuovo capitolo di una serie di videogame da oltre 100 milioni di copie. Questo in particolare, uscito il 30 novembre, ha incassato un miliardo di dollari in due settimane. «Ho recitato senza immagini. Avevo solo le battute», continua l’attore. «Qualcuno al mio posto avrebbe avuto delle difficoltà. Ma per me non c’è differenza. Spesso mi chiedono: “Come sei entrato nel personaggio?” Ma come si fa ad entrare in un personaggio? Con la porta? Non si entra nei personaggi, si raccontano come quando
si legge un romanzo. Li rappresenti. Chi entra nel personaggio è lo spettatore, tu devi solo fornire la chiave. Altrimenti dovrei soffrire sul serio ogni volta che interpreto qualcuno in difficoltà. Casomai è lo spettatore che piange o ride». Si interrompe. Poi riprende, ma su un altro tema, quello che alla fine preferisce. La base delle sue fughe come inventore. «La libertà è avere il tempo di fare quello che si vuole, e invece siamo sempre costretti in impegni, chiusi in gabbie. Anche l’attore conduce un’esistenza del genere. Devi essere un computer, ricordare tutto, muoverti a comando». E allora non dormire e inventare giubbotti sonori ad alta tecnologia diventa un’esigenza. Una necessità per sopravvivere. Almeno secondo Giancarlo Giannini.