Paolo Zellini, la Repubblica 14/12/2012, 14 dicembre 2012
LA DOPPIA VITA DELL’INFINITO
«Che cosa è l’ uomo nella natura? Un nulla di contro all’ infinito, un tutto di contro al niente, un mezzo tra niente e tutto. Infinitamente lontano dal comprendere gli estremi, la fine delle cose e il loro principio sono per lui invincibilmente nascosti in un segreto impenetrabile, ugualmente incapace di vedere il niente da dove è venuto come l’ infinito in cuiè inghiottito». Sono le celebri parole di Pascal, che ci costringono nel modo più drammatico e toccante a confrontarci con l’ illimitato. Un confronto inevitabile perché, come scriveva Nietzsche, «l’ infinito è il dato di fatto primordiale». Caso mai, «rimarrebbe da spiegare soltanto onde abbia origine il finito». Ma chi ha pensato per primo l’ infinito? Difficile dirlo, ma un libro di Rodolfo Mondolfo del 1934, ora pubblicato nei classici Bompiani, dimostra quanto il pensiero ellenico abbia contribuito a fissarne i tratti fondamentali, compresi i dilemmi e le antinomie che da sempre hanno messo in dubbio ogni nostra pretesa conoscenza del reale. È stato Nietzsche, nelle sue ricerche sull’ origine della tragedia, ad aver evidenziato i lati oscuri dello spirito greco e a rovesciare il pregiudizio diffuso che vedeva in quello spirito solo un ideale di chiara bellezza, di misura e di armoniosa proporzione. Mondolfo ha d’ altronde il merito di mostrare come la riflessione sul concetto greco di infinito rafforzi le tesi di Nietzsche: lo spirito dionisiaco apriva gli orizzonti dell’ infinito e l’ infinito mostrava a sua volta il volto più problematico, divino e insieme terrificante dell’ universo. Lo provano i pochi frammenti rimastici come le testimonianze su Anassimandro e Zenone, Anassagora e gli Atomisti, Pitagora e Melisso e anche, in modo più articolato, i Dialoghi di Platone e i trattati di Aristotele. L’ aspetto negativo, spaventevole e pur divino, dell’ infinito si coglie innanzitutto nella natura sfrenata delle divinità primordiali e nell’ abisso del Tartaro, dove i Titani furono precipitati dai fulmini di Zeus. Il buio, l’ assenza di riferimenti e l’ assoluto disorientamento che regnano nel Tartaro simboleggiano bene la totale indefinitezza dell’ apeiron greco, del "senza forma" e "senza limite". Aristotele, più di altri, teorizzò l’ aspetto negativo dell’ apeiron, sostenendo che l’ infinito non è ciò al di fuori di cui non c’ è nulla, ma ciò al di fuori di cui c’ è sempre qualcosa d’ altro. L’ infinito era sempre e solo movimento in altro, progressione interminabile, potenza senza soluzione, ripetizione coattiva del finito, qualcosa che la natura preferisce evitare. L’ infinito come totalità compiuta, spiegava Aristotele, l’ infinito in atto, non esiste, edè sempre contrassegnato dalla steresis, la mancanza, la privazione essenziale. Eppure anche Aristotele, al pari di Anassimandro, comprendeva la natura di "principio" che spettava all’ apeiron: l’ infinito è anche l’ attributo divino per eccellenza. Non deve quindi stupire che l’ infinito apparisse sotto un duplice aspetto: quale "mostro di malizia", come lo definiva ancora Boezio nella tarda antichità e, all’ opposto, come fondamentale attributo dell’ Uno, a cui l’ anima umana poteva unirsi nell’ estasi, secondo Plotino, diventando infinita lei stessa. E del resto, precisava lo stesso Plotino, esistono due infiniti, e anzi dei due è più infinito quello che sperimentiamo quaggiù nel mondo, «perché più un’ immagine è lontana dal vero essere, più essa è infinita». La contrapposizione e l’ intimo legame tra i due infiniti divennero nel corso dei secoli il tema ineludibile di ogni teologia, il segno enigmatico della creazione divina "dal nulla". Scholem spiegava come la mistica ebraica trovasse un’ eco nella dottrina di Aristotele. Per i cabbalisti ’ en sof, l’ infinito, era l’ attributo più segreto di Dio, la cui creazione consisteva in una specie di riflessione o di "contrazione" originaria, destinata a lasciare spazio, all’ esterno, a creature dominate dalla steresis, cioè dalla privazione. Per questo «un abisso si apre insieme al darsi di ogni qualcosa. Nessun essere è completo, ma ciascuno è per sua natura spezzato e incompiuto». Eppure, forse in virtù di quel primo, esemplare atto di riflessione, ogni cosa diventava pure suscettibile di conversione e di ritorno. Alla scienza "apollinea", specialmente alla matematica, toccò il compito di colmare le lacune dell’ infinito, neutralizzando le incongruenzee le assurdità che ne derivavano. La matematica greca, che evitava l’ uso esplicito dell’ infinito, cercò di imbrigliare l’ indefinitezza dell’ apeiron in una rete di rapporti e proporzioni, di progressioni di numeri e di figure geometriche che proseguivano sì all’ infinito, ma secondo leggi rigorose fissate in un sistema di algoritmi e dimostrazioni. Il logos, il rapporto tra grandezze, era allora l’ antitesi dell’ infinito, un modo per evitarne l’ uso improprio e indiscriminato, e nello stesso tempo il Logos finì per assumere una posizione centrale in ogni metafisica. Non a caso tra le locuzioni della metafisica e quelle della scienza si trovano significative e sorprendenti analogie. Dal XVII secolo in poi, la scienza e la filosofia cercarono in vari modi di superare il divieto aristotelico dell’ infinito in atto, e di rovesciare l’ apeiron in una concezione positiva dell’ infinito. E tutto, del resto, sembrava poter convergere verso questa meta; non solo il calcolo infinitesimale del XVII secolo o la teoria degli insiemi infiniti elaborata da Georg Cantor alla fine dell’ 800. Perché, contro Aristotele, si cominciava a pensare diffusamente che la natura non solo non evita, ma al contrario è tutta orientata a realizzare l’ infinito in ogni sua operazione. E se non erano la natura o la matematica a realizzare l’ infinito in atto, l’ uomo poteva comunque aspirarvi. In natura, spiegava Kant, ci sono fenomeni la cui intuizione implica l’ idea di infinito. Ma questa idea è a sua volta da intendersi come il frutto di una nostra facoltà, di un’ estensione dell’ animo che ci proietta, attraverso l’ idea del sublime, in una destinazione che oltrepassa la natura. Ma il passo finale di una conquista matematica dell’ infinito in atto non riuscì infine come si sperava. Nel Novecento il muro delle antinomie e la crisi dei fondamenti che seguì alla loro scoperta finirono per deviare il corso della ricerca di una teoria coerente dell’ infinito attuale. Il mondo, e con esso l’ infinito, come diceva Hermann Weyl, tornava ad essere "aperto". Di più, si cominciava a scoprire che le difficoltà della ragione insorgono non solo con l’ infinito, ma anche con un finito sufficientemente grande. Ad esempio nel calcolo su grande scala ci si imbatteva in problemi di semplice formulazione e risolubili con un numero finito di operazioni, ma con una tale esplosione di complessità combinatoria da scoraggiare ogni tentativo di effettiva risoluzione. Lo stesso infinito, che aveva innescato una drammatica crisi dei fondamenti nella prima metà del XX secolo, fu allora esorcizzato e rimosso, complice uno spostamento di attenzione verso nuovi enigmi matematici provvidenzialmente distanti da ogni pathos esistenziale o teologico.