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 2012  dicembre 17 Lunedì calendario

SU INTERNET SI RISCHIA LA GUERRA FREDDA

Dopo mesi di discussioni accorate sul futuro di Internet e dieci giorni di lavori con 1600 delegati, Wcit, la conferenza internazionale sulle telecomunicazioni organizzata dall’Itu a Dubai, si è conclusa con un sostanziale fallimento. Ben 55 paesi, infatti, tra cui l’Europa al completo, gli Stati Uniti, il Canada, l’Australia, il Giappone e l’India, si sono rifiutati di firmare il nuovo trattato sulle telecomunicazioni, compromettendone, forse irrimediabilmente, il futuro.
E’ vero che ben 89 paesi hanno invece firmato, ma la forza economica e politica degli oppositori, a partire dagli Stati Uniti, pesa come un macigno.
Cosa ha deragliato una conferenza attesa e preparata da anni? Non è facile capirlo.
Il punto di sensibile, infatti, era Internet, eppure la parola Internet non compare mai nelle dieci pagine del trattato (compare in una risoluzione allegata al trattato, ma le risoluzioni non hanno alcun valore vincolante). Inoltre l’articolo 1 specifica esplicitamente che il trattato «non riguarda gli aspetti relativi ai contenuti delle telecomunicazioni», espressione ritenuta da tutti significare: «no Internet». Né compare la proposta, avversata dagli Usa, di alcuni grandi operatori telefonici di far pagare il traffico Internet a Google, Facebook e gli altri grandi servizi Internet. L’unica perplessità di un certo peso la suscita l’articolo 5B, dedicato al contrasto della cosiddetta «spam» (posta elettronica indesiderata inviata a moltissimi indirizzi): con l’obiettivo di eliminare lo «spam», infatti, non si corre il rischio concreto che l’articolo 5B venga usato per legittimare pratiche invasive di ispezione dei messaggi, le stesse usate anche per censurare e sorvegliare? E poi chi decide cosa è «spam» e cosa no? L’obiezione è fondata. Ma appartiene alla categoria dei motivi che portano al deragliamento di una conferenza intergovernativa? Forse ma c’è ragione di ritenere che i motivi dell’opposizione del blocco guidato dagli Usa siano anche, e forse soprattutto, altri. In particolare è probabile che gli Stati Uniti abbiano scelto di far capire a tutti, nella maniera più esplicita possibile, che l’attuale sistema di governo di Internet non si tocca. Il sistema di governo attuale, infatti, è articolato su organismi come Icann, Ietf e Internet Society, entità emerse nei decenni scorsi dal mondo Internet, ma proprio per questo - nonostante i numerosi tentativi di renderle sempre più rappresentative - di chiara matrice Usa.
Saranno i prossimi anni a dire se la scelta degli Usa e degli altri paesi che non hanno firmato il nuovo trattato è stata positiva per lo sviluppo di Internet o se invece ha dato al via a una Guerra Fredda digitale. Se da una parte, infatti, è ragionevole concentrare gli sforzi su un miglioramento del sistema attuale di governo di Internet, che finora ha assicurato alla Rete un successo straordinario, dall’altra parte è ora di iniziare a dar maggior voce a questioni che finora sono rimaste spesso fuori dalla porta. In quale sede discutere efficacemente, per esempio, di chi vince e di chi perde a livello economico con Internet? Dove decidere in tema di diversità culturale? In quale sede globale porsi seriamente il problema di come portare Internet a quella larga parte della popolazione mondiale che ne è ancora esclusa?
Sono temi importanti e se l’Itu, con la sua logica intergovernativa, non è l’entità adatta per trattarli, ciò non vuol dire che si possano sostanzialmente ignorare. Qualunque sia la sede, comunque, la chiave per superare sia le pulsioni egemoniche dei governi sia i concreti interessi delle multinazionali è la società civile. E’ la società civile globale, infatti, con le sue organizzazioni non profit, le università, gli intellettuali, che può meglio assicurare che Internet rimanga uno strumento al servizio delle persone, nonché, come da anni dice Stefano Rodotà, il più grande spazio pubblico della storia dell’umanità.