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 2012  dicembre 17 Lunedì calendario

INCONSCIO ALL’OPERA

[Quegli eroi della lirica dimezzati dai registi] –
Redenta soprattutto dal genio autorevole di Riccardo Muti, un’opera scombinata come il Simon Boccanegra, verdiano e adesso romano, non soltanto infarcisce lo scombiccherato libretto di ricercati desueti termini piuttosto deplorevoli. Tipo: solinga men givo, degg’io, vegg’io, ti ritraggi, t’attrista, t’involi, indarno, ribaldo, ferale, orbato, abborrito, puote, aita, potrìa, mendace, magione, procelle, dilettanze, amistanze, empi, empito, empiro, anelito, fato, fantàsima, sacro alla bipenne... Con voci mirabili, concertazione e direzione eccelse...
...Magnifiche nubi tempestose, supreme mareggiate oniriche, agnizioni di vegliardi annosissimi, decenni turbolenti che passano, quadri del Rinascimento in saloni medioevali, pacate onde liguri... Senza però compiacimenti di tipo dannunziano per idiomi così vistosamente obsoleti. Né difficoltà apparenti nel piantare chiodi su quei marmi.
Ma soprattutto, nel Boccanegra, abbondano risse e conflitti genovesi di masse in costume, come nella Firenze di Dante e nella Verona di Romeo e Giulietta.
Come fra quei Capuleti e Montecchi, altro che le facinorose tifoserie d’oggidì. Qui ci si ammazza sul serio. Fazioni rivali più o meno equivalenti, ma non già alternative. «All’armi! Vendetta! Spargasi il sangue! Viva il popolo! Quai gridi! Gli sgherri! Morte ai patrizi! E i Guelfi! Sconfitti! E i tuoi nemici? In trono!». Con vicende molto alterne. «Doge il popol t’acclama! Del popolo l’eletto! Adorno acclamate! No! Boccanegra! Ma è morto!».
Mica solo a Genova. Nel medesimo Ottocento, secondo il Carducci più educativo e scolastico, «Como è co’ forti, e abbandonò la Lega. / Il popol grida: “L’esterminio a Como!”». E non mere fiaccolate pie. «I fuochi della Lega rispondon da Tortona, / e un canto di vittoria nella pia notte suona». Anche nel Dugento però la nettezza urbana e le concussioni municipali promuovevano fior di carriere. In Faida di Comune, le contestazioni fra Pisa e Lucca vengono trattate da appositi ambasciatori. «Ecco vien Bonturo Dati, / mastro in far baratterie. / Ecco Cino ed ecco Pecchio / che spazzarono le vie»...
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È la Drammaturgia, bellezza. O forse: è la Drammaturgia, bruttezza? E da decenni impone che per meglio storicizzare le opere, non bisogna seguire le indicazioni degli autori, bensì rifarsi alla annata della prima rappresentazione: Tristano e Isotta nel 1865, Aidanel 1871, e così via. Entro quegli ambiti, lecito sbizzarrirsi. Con le partiture, invece, assolutamente no.
Tutti gli eroi, vistosamente virati in anti-eroi. Meglio, in controfigure e “doppi” dei classici protagonisti «raggianti di splendor » fra lucenti armature d’argento, elmi sul capo, scudi sulle spalle, ricche sopravvesti, talami nuziali riccamente ornati, cavalli puntualmente e facoltosamente bardati (altrimenti non si va in scena)... Insomma, l’inconscio dei paladini, dei prodi. Invece, i cattivi appariranno cattivissimi e tutti d’un pezzo, nei ghigni come nelle pettinature.
Alla Scala, per il Lohengrin inaugurale, pare inevitabile che ritornino più o meno vivaci alla memoria taluni precedenti illustri. All’Opernhaus di Zurigo, Bob Wilson aveva eliminato le scenografie convenzionali in favore di un allestimento di luci. E pochi elementi geometrici. Però Gösta Winbergh giungeva eroico e autorevole come i suoi Tito e Idomeneo mozartiani con Muti alla Scala, su un barchino con ali stilizzate da cigno gentil, benché proveniente così ritto e impettito da una lontana terra su per i monti. E come perfida Ortruda apparve impareggiabile Anja Silja.
Sempre in epoche lontane, a Bayreuth la prateria sulla Schelda presso Anversa, un millennio fa, appariva come una scogliera di foche, abitata da Brabantini e da Sassoni analogamente selvatici, abbigliati di pellicce primordiali. Nella regìa di Werner Herzog, il Cigno veniva soppiantato da un abbagliante raggio laser bluastro. Paul Frey con Nadine Secunde e Gabriele Schnaut erano eccellenti protagonisti, mentre i “belli” d’allora, Peter Hofmann e Siegfried Jerusalem, cantavano Tristano e Parsifal diretti dal giovane Barenboim. Peter Schneider dirigeva Lohengrin sia a Bayreuth sia alla Staatsoper berlinese: ma qui la regìa era del “basso” protagonista nel ruolo del Re, Theo Adam.
Davanti a un cortile «di ringhiera » così imponente e simmetrico, i lettori habitués del Gadda milanese riconosceranno un peristilio altoborghese da casa Brocchi piuttosto che un malandato androne di Via Keplero? E i reduce dal Sant’Ambrogio di Giuseppe Giusti ritroverebbero forse una bandina di “tugnìn” sudditi Boemi e Croati di Cecco Beppe nonché poi di Sissi? E l’aggiornamento non sarà dato proprio per la “puccia” o pozzanghera ecologica col suo mini-canneto sostenibile in fondo al cortile, come nel Parsifal ove scende il povero Amfortas per un pediluvio di sollievo?
Ivi, tra i cespugli, dovrebbe annidarsi Kundry, secondo Wagner: «Quasi barcollando, in abito rozzo e molto succinto, capelli neri scarmigliati, pungenti occhi neri, di quando in quando selvaggiamente lampeggianti, spesso mortalmente rigidi e immobili». A detta di tali didascalie, ecco fedelmente nevrotico e «puro folle» (come suo padre Parsifal) il magnifico Jonas Kaufmann, molto simile al Bob Dylan idolo rock dei giovani nel Sessanta. E alle prese con una eccellente partner, stralunata però invasiva. «Mai devi domandarmi? Neanche per farmi un piacerino?». Ma giacché lui proviene da una comunità monastica rigorosamente maschile e ai piedi francescani nudi, come mai nessuno gli chiede notizie sulla sua mamma? (Con Parsifal, l’espediente ha successo. Ma quel puro folle non ha già ammazzato un altro cigno gentil? Allora è un brutto vizio, direbbe la nonna).