Daniele Autieri, Affari&Finanza, la Repubblica 17/12/2012, 17 dicembre 2012
SONO FIGLI, FRATELLI, MOGLI E CUGINI I MANAGER DELLE IMPRESE ITALIANE
[La percentuale di aziende a proprietà familiare è simile in tutta Europa, ma è diversa la presenza di dirigenti che sono anche parenti: il 66,3% di quelle italiane contro il 25 di quelle, il 28 delle tedesche, il 35,5% delle spagnole e il 10,4% delle inglesi] –
Roma
Nel Paese delle mille parentopoli non poteva mancare quella consumata all’interno delle imprese private. E così, fedeli al più classico stile italico, gli imprenditori hanno preferito mettere alla guida delle loro aziende figli, fratelli, mogli e cugini. A fotografare questo fenomeno sono i dati elaborati da Efige (European firms in a gobal economic) e Unicredit che non si limitano a raccontare la realtà italiana, ma allargano il campo a una comparazione europea. La percentuale di aziende a proprietà familiare è simile in tutta Europa (sono l’85,6% in Italia, l’89,8% in Germania, l’80% in Francia e Regno Unito e l’83% in Spagna). All’interno di queste imprese solo il 25% di quelle francesi hanno manager di famiglia. Lo stesso vale per il 28% delle tedesche, il 35,5% delle spagnole e il 10,4% delle inglesi. Le differenze emergono con le italiane, il 66,3% delle quali ha dirigenti che sono membri delle famiglie proprietarie, circa il doppio di quanto accade negli altri Paesi europei, e sei volte di più del minimo anglosassone. La situazione si fa più critica con le piccole e medie imprese che guardano con diffidenza agli inserimenti esterni e sono in gran parte ancora restie ad affidarsi alle società di cacciatori di teste. A confermarlo è Cristina Spagna, managing director di Kilpatrick Executive Search. «Il principio fondamentale per la maggior parte dei piccoli e medi imprenditori italiani – spiega – è la familiarità. Quindi
meglio un figlio, un nipote, una moglie piuttosto che un dirigente arrivato da fuori. Il paradosso è che l’imprenditore cerca di tutelarsi con le sue conoscenze personali, ma così finisce per fare il male dell’azienda. All’estero accade tutto l’opposto: le aziende, anche piccole, si affidano a manager professionisti e si appoggiano alle società di head hunting per ricevere consulenze a tutto tondo e farsi accompagnare anche nell’offerta dei compensi e nel modo più efficace di utilizzare le nuove competenze ». «Purtroppo – prosegue Spagna – le aziende italiane sono ormai chiamate a vivere una competizione costante sui mercati internazionali, gli unici che ormai garantiscono la crescita, e senza una struttura organizzativa e gerarchica efficiente, rischiano di rimanere schiacciate dalla concorrenza». Il ritardo è profondamente sentito dagli stessi manager che rivendicano un riconoscimento maggiore del ruolo svolto nella crescita delle aziende. Secondo due indagini elaborate da Astra Ricerche e Duepuntozero Doxa per Manageritalia, il 96% dei dirigenti privati ritiene che per migliorare le performance produttive delle aziende bisognerebbe valutare le persone su merito e risultati raggiunti; ci vorrebbe più formazione e un’organizzazione aziendale meno gerarchica e più collaborativa. Affermazioni che trovano conferma nell’analisi Efige-Unicredit dalla quale emerge che solo il 10,7% delle imprese italiane con management di famiglia fa variare la remunerazione dei dirigenti in base ai risultati. Una tipicità tutta italiana che, come spiega Fabio Ciarapica, senior partner di Praxi, risulta evidente dalla comparazione con le altre imprese europee. «Mentre nei paesi anglosassoni e nordici ci sono tante multinazionali gestite da manager espressione degli azionisti finanziari – commenta – il tessuto produttivo della Germania è molto più simile al nostro e, come in Italia, oltre l’80% delle aziende sono controllate da famiglie. La differenza però sta nella gestione, che le famiglie tedesche affidano a manager esterni, mentre quelle italiane lo considerano un problema da risolvere internamente alla famiglia stessa. In Germania il proprietario-tipo crea una fondazione che sceglie una linea di manager esterni alla famiglia e fa da cuscinetto tra i dirigenti e la proprietà. In Italia questo cuscinetto è assente. Il problema, quindi, è di cultura organizzativa». Che una delle cause del ritardo produttivo sia da ricercare nell’eccessivo “familismo” dei management aziendali, è confermato anche da un’indagine della Fondazione Rodolfo De Benedetti realizzata insieme ad alcuni professori della London School of Economics, I dati, anche in questo caso, parlano da soli: rispetto alle aziende con un management familiare o valutato sulla fedeltà, quelle con dirigenti scelti e retribuiti sulle performance registrano una maggiore crescita di vendite (+14%), un aumento dell’occupazione (+24%), e un più elevato ritorno sul capitale impiegato (+14%). Sulla scia dei risultati di quest’indagine, anche Mario Mantovani, vicepresidente di Manageritalia, punta il dito sul rapporto tra managerialità e produttività e afferma: «come dimostrano i dati questi due concetti sono direttamente correlati. Le aziende che hanno un management sono più produttive e competitive di quelle che non lo hanno e lo sono ancor più se il management è messo in condizioni di agire al meglio, slegato da distorcenti rapporti meramente fiduciari con l’imprenditore/azionista e più legato ad una oggettiva valutazione della sua capacità di far competere e crescere l’azienda». «L’Italia ha un’ottima produttività – prosegue – anche maggiore rispetto a quella dei principali competitor europei, proprio nel segmento di aziende medio-grandi o grandi. Quelle aziende che negli ultimi anni hanno visto gli imprenditori/azionisti affidare a bravi manager la gestione dell’azienda e che, nonostante la crisi, competono e sono vincenti sui mercati globali».