Giampaolo Visetti, Affari&Finanza, la Repubblica 17/12/2012, 17 dicembre 2012
FINANZA SOMMERSA LA CINA CONTRAE LO STESSO VIRUS DELL’AMERICA
Mercati e investitori temono che anche la Cina abbia contratto il virus della finanza infetta. A preoccupare non sono solo i meccanismi delle quotazioni, che consentono anche alle aziende sottocapitalizzate, o con bilanci opachi, di accedere alla Borsa. L’ultimo allarme, rilanciato dal «Financial Times», riguarda il sistema delle cosiddette «banche ombra». In Cina il credito non ufficiale, praticato da istituti che non hanno il prestito di denaro quale business principale, non è illegale. Ha una tradizione antica, ma negli ultimi dieci anni, grazie al boom immobiliare, ha registrato un’espansione sorprendente. E’ oggi costituito da una rete complessa di canali di finanziamento da parte di imprese che, investendo in fondi ad alto rischio, concedono credito a clienti che difficilmente lo otterrebbero dai canali ufficiali. Lo stesso meccanismo, tristemente noto negli Usa, consente di offrire tassi di interesse capaci di attirare la liquidità dei risparmiatori. Parte di questo sistema sommerso è rappresentata dagli strozzini, moltiplicatisi nelle regioni industriali della costa e nelle metropoli produttive in espansione. La fetta più ricca dei prestiti ombra spetta però proprio ai «trust», società simili ai famigerati «hedge fund» dell’Occidente. Contattano grandi clienti con poca liquidità, imprese edili e promotori immobiliari, ma pure industrie, cantieri navali e compagnie energetiche, e oltre al credito promettono alti rendimenti.
La stretta bancaria promossa del governo di Pechino, spaventato dal rischio dello scoppio di bolle e da un’inflazione fuori controllo, negli ultimi mesi ha favorito una crescita record dei prestiti sommersi. Banchieri, agenzie di rating e lo stesso Fmi temono che le «banche ombra» cinesi controllino ormai un terzo della gestione patrimoniale interna e del risparmio. Stime attendibili avvertono che nel 2012 hanno mosso oltre 2 mila miliardi di dollari, un quarto del Pil, quota che potrebbe però raddoppiare, arrivando al 50% del prodotto interno della seconda economia del mondo. Questi «trust» nel primo trimestre dell’anno gestivano un patrimonio di 6,3 miliardi di dollari, in crescita del 54% in tre anni, e a fine dicembre potrebbero superare le assicurazioni per potere finanziario, fermandosi solo alle spalle delle banche, controllate dallo Stato. Ogni tre yuan risparmiati dalle famiglie cinesi, si calcola che uno finisca ormai nelle casse del credito sommerso, primo motore delle speculazioni edilizie. L’opacità del sistema impedisce stime precise sul grado di rischio. Nessuno può dire come la montagna di denaro viene utilizzata e la resa dei conti, fino a quando ci sono soldi da investire, viene rinviata. Il rischio è però evidente: anche le banche, per arginare la concorrenza non ufficiale, spingono prodotti finanziari ad alto rischio e alimentano il sistema che dovrebbero regolare, minandone la stabilità. Gli istituti stranieri si interrogano così sulle ragioni che spingono il governo di Pechino, noto per la mano pesante in tutti i settori economici, a consentire il decollo di un potere finanziario malato che rischia di travolgerlo. La risposta più ovvia è quella politica. Le autorità cinesi sono decise da una parte a proteggere le banche e l’economia ufficiale, ma dall’altra a non soffocare una crescita già in frenata. Le imprese, con bilanci meno solidi, per svilupparsi hanno bisogno di molto credito e se lo Stato chiude la cassa, non resta che rifugiarsi nell’ombra messa a disposizione del potere stesso. Resta la prospettiva di un default: ma ancora una volta i risparmiatori non potranno prendersela con i responsabili reali dei loro guai.