Giovanni Bianconi, Corriere della Sera 17/12/2012, 17 dicembre 2012
DAL NOSTRO INVIATO
PALERMO — Hanno parlato per un’ora, in una saletta del supercarcere di Parma. I magistrati hanno tentato di convincerlo a dire qualcosa della sua storia, che s’è intrecciata con la parte criminale della storia d’Italia. «Ha l’unica occasione di ristabilire in parte la verità sul nome di Bernardo Provenzano», l’hanno esortato. Ma lui niente. Seduto davanti ai due procuratori aggiunti di Palermo Antonio Ingroia e Ignazio De Francisci (oggi entrambi trasferiti ad altri incarichi) il padrino di Corleone non ha ceduto di un millimetro. Ha risposto in modo a volte confuso e a volte più lucido, spesso in siciliano stretto, ma sempre per ripetere lo stesso concetto: «Non ho niente, io... Facevo bene, facevo male... Ci sono cose che... portano tutto questo male che vede». I pm provano a interpretare: «Che portano male più che bene?». E Provenzano: «Questo significa. Per dire io la verità avissi a parràri male di cristiani, scusatemi». Dovrei parlare male delle persone. «E lei non vuole», chiosa Ingroia.
«Noi dobbiamo parlare bene se non abbiamo ricordi — aggiunge il boss di Cosa nostra —. Allora, io dovrei prendere, caricare una cosa che non è chiara, non è mia, e dovrei farla portare agli altri? Non è cosa mia. E manco portarla. Niente. Per me è una legge che si deve rispettare». Come dire che di fronte a certe situazioni non se la sente di attribuire responsabilità. «Se volessi fare qualcosa, e se facessi subito la guerra, è chiddru di diri che c’è cu è ca mi ha rispettato e c’è cu è ca un m’ha rispettato», c’è chi mi ha rispettato e chi no. «Non ho voluto tanto parlare, per ora non ho cose», conclude.
È il 31 maggio scorso, sei anni e 48 giorni dopo l’arresto sulle montagne intorno a Corleone, e Bernardo Provenzano sostiene il primo e finora unico interrogatorio di cui si ha notizia davanti a due magistrati. I quali per l’occasione non hanno convocato il difensore. Il capomafia viene ascoltato come testimone, nell’ambito di un procedimento catalogato come relativo a «notizie non costituenti reato». Particolare che potrebbe provocare nuove polemiche, visto che l’avvocato Rosalba Di Gregorio s’è lamentata per il trattamento riservato al suo cliente, e ora che ha ottenuto il verbale l’ha depositato al giudice dell’udienza preliminare sulla cosiddetta trattativa fra lo Stato e la mafia al tempo delle stragi. Lì Provenzano è imputato, ma il giudice Morosini ha disposto una perizia per stabilire se il boss, malato e quasi ottantenne, sia ancora capace di intendere e volere, di presenziare al giudizio nei suoi confronti. Il responso arriverà a gennaio.
Interrogatorio senza avvocato
Ingroia e De Francisci sono volati a Parma dopo che, una settimana prima, gli onorevoli Giuseppe Lumia e Sonia Alfano erano andati a far visita al detenuto. In quell’occasione l’avevano sollecitato a collaborare coi magistrati, e Provenzano aveva replicato: «I miei figli non devono andare al macello, fatemi parlare con loro e poi sarà la volontà di Dio». Ai due pm che lo incalzano per chiarire il senso di quella frase, e lo invitano ad aprirsi con loro, non riesce a far comprendere quel che intendeva dire. Ma a tratti appare comunque lucido, e forse con la voglia di lanciare qualche messaggio. Come quando Ingroia lo esorta per l’ennesima volta a «raccontare la sua verità», per sé e «per i suoi figli», e lui ribatte: «Ognuno di noi, penso che tutti abbiamo il pensiero di costruire e costruire, e per farlo ci vuole, dice mà paesano, ma si può dire Dio, perché proprio è u tiziu, u caiu, e persone che non sanno, covano e discriminano... Ma queste cose verrà, ma potrebbe venire col tempo, secondo come andranno le cose».
Dopo altre frasi smozzicate che i magistrati comprendono a fatica, Provenzano aggiunge: «Se ci mettiamo tutti nu miezzu a parràri (se ci mettiamo tutti in mezzo a parlare, ndr), non ci mettiamo per avere una parola sola che si dice e può sbummicare (fuoriuscire di getto, quasi esplodere, ndr)». Ingroia prova a cavarne qualcosa di più: «La verità può anche avere effetti che fanno, come dice lei, "sbummicare", ma lei ha paura della verità? Se lei non ha paura della verità e ha il coraggio, la dica, che noi paura non ne abbiamo». Il capomafia replica in maniera ambigua, citando Dio e il timore dei giornalisti «che devono vendere i giornali». Finché il padrino condannato all’ergastolo per le stragi e altri delitti arriva a esprimere un concetto apparentemente più articolato: «Io mi sento... Cioè, nella mia coscienza e nella mia vita penso di avere fatto, se bene per mezzo ci sarebbe stato, fare bene. Fare male non m’è piaciuto mai e non mi piace. E manco per, solo per dirsi..., per poi lei dirmi una parola a mia o che mi vuole bene. Ora io sono per conto mio, una parola che non se, non rendo cioè a dare quello che chidd’autri sperano», che gli altri sperano.
«Sia fatta la volontà di Dio»
Ingroia non si arrende, e gli ribadisce l’occasione per cambiare il giudizio nei propri confronti: «Perché così i suoi figli, diciamo il nome di Provenzano, invece di essere sempre trattato in un certo modo, sarebbe considerato in un altro modo. Dipende da lei». Nemmeno il padrino, però, si arrende: «No, non ho cose particolari da dire, né a lei né ad altri... Il raccontare la mia vita, ma non è che posso raccontare... Una vita da latitante mi fici».
Tra una frase con qualche significato e una che sembra non averne affatto, i pm tentato di farsi dire qualcosa che possa costituire un riscontro alla vicenda della trattativa. Per esempio sui presunti incontri tra Provenzano e Ciancimino a Roma, nel 1992, di cui ha parlato il figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo. Ingroia chiede al boss se è mai stato nella capitale, e lui risponde sicuro: «No». E Vito Ciancimino lo conosceva? «Lo conoscevo, perché era paesano mio... U sapi (lo sa, ndr), inutile che ci dico». E a Palermo, o altrove, si sono mai incontrati? «Non mi ricordo dov’è che... la prima volta, perché lui era più grande di me... Un ricordo c’è, ma è proprio leggermente, salutare e prendere e cùrriri». Come di sfuggita, traduce Ingroia: «Cose così, veloce veloce».
Sul suo arresto sostiene di non ricordare granché, nemmeno se furono i poliziotti o i carabinieri a prenderlo: «Pì mia stessa cosa sunnu». Ammette il viaggio in Francia per l’operazione alla prostata. Ricorda di essersi mosso con l’automobile: «In macchina, quando poteva essere che mi dovevo spostare per forza, sceglievo un orario e minni iva unn’è cha avia a ghiri», andavo dove dovevo andare; dice che l’unica volta che ha preso «l’apparecchio» è stato quando l’hanno caricato sull’elicottero dopo la cattura.
Al termine dell’interrogatorio, preso atto del tentativo fallito, i pm lo invitano a pensare a una sua collaborazione. Loro torneranno, annunciano. Provenzano risponde con parole che nuovamente possono suonare ambigue: «Io cose da raccontare non ne ho e non ce ne posso dare», ma poi aggiunge: «Al momento non ci posso dire niente, cioè se posso essere utile... e ritenete che potrebbe essere utile. Ma non lo so, sono a disposizione vostra... Prima devo vedere come mi trattano qua». Ingroia chiede: «Se fosse fuori dal carcere parlerebbe più liberamente», e il boss risponde: «Non lo so, se u sapìssi ci u dicissi», se lo sapessi glielo direi. Alla fine il pm lo rinvia a un nuovo appuntamento, e il padrino chiude: «Ma sì, aspettiamo. Aspettiamo cioè, quello che si dice "e sia volontà di Dio", possiamo incontraci benino, se non c’è volere di Dio, sia fatta la volontà di Dio».
Giovanni Bianconi