Marco Del Corona, Corriere della Sera 17/12/2012, 17 dicembre 2012
DAL NOSTRO INVIATO
TOKYO — Ritorno al passato. Senza suspense e senza brividi di piacere. Il Giappone si riconsegna al Partito liberaldemocratico (Ldp) che aveva governato dal 1955 al 2009 con soli 11 mesi d’interruzione. Ritrova come premier Shinzo Abe che già lo fu per un anno tra il 2006 e il 2007, e che si preparava alla riscossa ammettendo: «Come politico ho fallito, proprio per questo stavolta darò tutto per il Paese». Intanto la Borsa di Tokyo vola in apertura (+1,62%) mentre lo yen nei primi scambi della mattina è crollato ai livelli più bassi rispetto al dollaro dall’aprile del 2011: la vittoria di Abe significa infatti che la banca centrale nipponica potrebbe immettere maggiore liquidità nei mercati già questa settimana.
La rabbiosa delusione dell’opinione pubblica ha punito il Partito democratico che solo tre anni fa aveva stravinto elezioni storiche: il premier uscente Yoshihiko Noda ha chiesto «scusa» dimettendosi da leader e il 26 passerà la guida del governo ad Abe. Il quale avrebbe fatto bingo: i circa 300 voti dell’Ldp sommati a quelli del Nuovo Komeito (espressione del gruppo buddhista Soka Gakkai) gli consegnerebbero i due terzi dei 480 deputati. Maggioranza qualificata con la quale può bypassare la camera alta che non controlla. I democratici, invece, piombano a una sessantina di parlamentari, un quinto del 2009. «Come partito potrebbero anche implodere e non sopravvivere», osserva con il Corriere Robert Dujarric della Temple University Japan.
Intorno ad Abe, settimo primo ministro in 6 anni, sono fioriti gruppi minori. Tra loro, nel nome dell’orgoglio patrio, il Partito della rinascita capitanato dall’ex governatore di Tokyo, Shintaro Ishihara, è la terza forza. Mentre al quarto piano della sede dell’Ldp si piazzavano coccarde a forma di rosa per segnare i nomi degli eletti, Abe ha subito rivendicato il primato dell’agenda nazionalista: «Rafforzeremo l’alleanza con gli Usa e miglioreremo i legami con la Cina che però deve smettere di dire che le isole Senkaku sono sue».
Tuttavia non è sulla politica estera che si sono giocate le elezioni di un Giappone ancora provato dal terremoto-tsunami-disastro nucleare dell’11 marzo 2011. «Oltre al rigetto dei democratici, ha contato una triplice ricerca di sicurezza — ci dice Tomohiko Taniguchi, professore all’Università Keio e rispettato analista —. Sicurezza economica e del lavoro, sicurezza nucleare, sicurezza nazionale». Prevale la prima. Abe eredita un Paese in recessione, col debito pubblico che è due volte il Pil, punito da uno yen troppo vigoroso. Il futuro premier ha ribadito l’impegno ad affrontare la deflazione, a rilanciare grandi piani infrastrutturali e ad allentare la politica monetaria, ma l’economista Eisuke Sakakibara, ex viceministro, è dubbioso: «Abe, nonostante tutto, non sa che fare. La recessione attuale è frutto di cause esterne — ci spiega —, servirebbero liberalizzazioni vere e un drastico abbassamento delle tasse. Ma chissà…».
Abe, 58 anni, è il tipico erede di una famiglia di politici. Il padre fu ministro degli Esteri. Il nonno Nobusuke Kishi ha una storia addirittura sulfurea: altissimo dirigente nella Manciuria occupata, ministro del Giappone bellico, «criminale di guerra di classe A» (ma poi scagionato dagli Alleati), infine premier. A Kishi sarebbe piaciuto il comizio finale del nipote, sabato sera ad Akihabara, il quartiere dell’elettronica, che attaccava l’associazione degli insegnanti: «Sinistrorsi contro l’inno e l’inchino all’alzabandiera, trasformeranno i nostri bimbi in piccoli comunisti». Nel 2006-7, più giovane premier del dopoguerra, Abe fu logorato dalle gaffe. Durante il suo mandato l’amministrazione pubblica «smarrì» milioni di posizioni pensionistiche e dopo passi di riavvicinamento alla Cina, Abe guastò tutto liquidando con leggerezza la questione delicatissima delle schiave sessuali delle truppe giapponesi in Asia negli anni ’30 e ’40. Quest’anno ha visitato il tempio Yasukuni, memoriale dei caduti, criminali inclusi, provocando l’ennesima folata di ira da Cina e Coree. Avverte Tsuneo «Nabe» Watanabe, della Tokyo Foundation: «Abe dovrà muoversi tra i vari gruppi di interesse, compresi gli industriali che vogliono la fine delle tensioni con la Cina, economicamente dannose. Ma senza essere temprati dalla lotta per emergere, come invece accadde a Junichiro Koizumi, non si diventa veri leader».
Marco Del Corona