Paolo Mieli, Corriere della Sera 11/12/2012, 11 dicembre 2012
l 4 ottobre del 1844, Warder Cresson, figlio di ricchissimi quaccheri nonché proprietario terriero di Philadelphia, dopo aver abbandonato la moglie ed essersi fatto nominare dal segretario di Stato americano John Calhoun console generale in Siria, giunse a Gerusalemme
l 4 ottobre del 1844, Warder Cresson, figlio di ricchissimi quaccheri nonché proprietario terriero di Philadelphia, dopo aver abbandonato la moglie ed essersi fatto nominare dal segretario di Stato americano John Calhoun console generale in Siria, giunse a Gerusalemme. Disse che era venuto per favorire il «ritorno degli ebrei», così da preparare l’umanità in vista del Secondo Avvento e dell’imminente Apocalisse. Cresson non era il solo nel suo Paese a pensarla a quel modo. Già i primi missionari avevano creduto che gli indiani d’America fossero discendenti delle tribù perdute di Israele e che ogni buon cristiano avrebbe dovuto compiere «atti di giustizia» a Gerusalemme per agevolare il ritorno degli ebrei nella loro terra. Sentimento poi condiviso persino dai padri fondatori degli Stati Uniti, Thomas Jefferson e Benjamin Franklin. «Vorrei tanto che gli ebrei tornassero in Giudea come nazione indipendente», aveva scritto il secondo presidente americano, John Adams. Nel 1819, due giovani missionari di Boston, Levi Parsons e Pliny Fisk, si trasferirono, nel nome di un «dovere spirituale», a Gerusalemme. Lo stesso fece nel 1837 Harriet Livermore, figlia e nipote di deputati del New England, dopo aver predicato per anni a sioux e cheyenne per convincerli che erano eredi delle tribù di Israele e che avrebbero dovuto seguirla nella terra di Sion. In quello stesso periodo un ex ufficiale dell’esercito del Massachusetts, William Miller, stabilì che Cristo sarebbe tornato a Gerusalemme tra il 1843 e il 1844, calcolando dalla profezia che l’evento si sarebbe puntualmente verificato dopo «duemilatrecento sere e mattine» (a suo avviso da interpretarsi non come giorni, ma come anni) a partire da quando, nel 457 a.C., il re persiano Artaserse I aveva ordinato la restaurazione del Tempio. Miller fece centomila proseliti che non si diedero per vinti neanche quando la profezia non si avverò. E così, quando Cresson si mise in viaggio alla volta di Gerusalemme, una grande quantità di evangelici decise di seguirlo. Poco tempo dopo, al presidente degli Stati Uniti, John Tyler, giunsero numerosi rapporti diplomatici nei quali quel console veniva definito «maniaco religioso» o «pazzo» e il governo americano lo congedò. Ma Cresson rimase a Gerusalemme, continuò a rilasciare a chi lo raggiungeva «visti di protezione» e si convertì all’ebraismo, prendendo il nome Michael Boaz Israel. A questo punto, la moglie abbandonata lo denunciò per infermità mentale e Cresson fu costretto a tornare a Philadelphia per affrontare il dibattimento. Fu un processo molto importante perché oggetto del contendere divenne il diritto costituzionale di credere in ciò che si vuole. L’ex console fu condannato in prima istanza, ma in appello fu assolto e la sentenza fu una pietra miliare nella storia americana della libertà di culto. Cresson tornò allora a Gerusalemme, creò una fattoria modello, studiò la Torah, divorziò dalla moglie per sposare un’ebrea e, quando morì, fu sepolto nel cimitero ebraico sul monte degli Ulivi. A seguito del «caso Cresson» furono tali e tanti gli americani che si trasferirono nella futura Israele che un giornale statunitense paragonò questa migrazione alla corsa all’oro in California. Qualche tempo dopo, quando visitò Gerusalemme, Herman Melville fu assai colpito dal fervore dei millenaristi americani («questa assurda giudeomania, fra il malinconico e il farsesco») e previde una «delusione molto dolorosa» per le loro attese. Ma un altro scrittore, William Thackeray, notò invece che a Gerusalemme — città che, per l’interessamento dello zar Nicola I e dopo un viaggio di Nikolaj Gogol, cominciava ad attrarre anche i russi — stava accadendo qualcosa per cui sarebbe diventata «il centro della storia mondiale passata e futura». Tra il 1800 e il 1875 furono pubblicati circa cinquemila libri, in inglese, su Gerusalemme. Gerusalemme è la casa del Dio unico, la capitale di due popoli, il tempio di tre religioni ed è la sola città che esista sia in cielo che in terra. Ad essa Simon S. Montefiore (discendente di sir Moses Montefiore — ebreo livornese e inglese, baronetto della regina Vittoria, di cui era anche amico personale, cognato di un Rothschild — che nel 1827 fondò il primo quartiere ebraico della città) ha dedicato un libro, Gerusalemme, che sta per essere pubblicato da Longanesi. Il volume cerca di spiegare perché quel sito «lontano dalle vie commerciali sulla costa mediterranea, povero d’acqua, riarso dal sole d’estate, battuto da venti freddi in inverno, un luogo povero annidato tra le colline della Giudea, caratterizzato da rocce scabre e inospitali», sia così importante nella storia dell’umanità. In altre parole come è stato possibile che quella città sia diventata (anzi, sia stata dall’inizio e per migliaia di anni) il punto nodale dello scontro fra le religioni abramitiche, il santuario del «crescente fondamentalismo cristiano, ebraico e islamico», il campo di battaglia strategico di civiltà in lotta tra loro, la «linea del fronte tra ateismo e fede». Un «mattatoio delle religioni», la definì Aldous Huxley. Costruita settemila anni fa, in seguito fu abbandonata e rifiorì 19 secoli prima della nascita di Cristo, all’epoca della civiltà minoica; fu conquistata dal re Davide attorno al 1000 a.C., per poi essere distrutta due volte: dal re babilonese Nabucodonosor (586 a.C.) e dal figlio dell’imperatore Vespasiano, Tito (70 d.C.). Nel corso dei sei secoli e mezzo che separarono le due distruzioni del Tempio, la città fu in mano ai persiani (539-336 a.C.), ai macedoni (336-166 a.C.), ai Maccabei (164-66 a. C.) e infine ai romani, che dal 40 a.C. al 66 d.C. ne delegarono il governo agli Erodi. Ai tempi di Vespasiano, Tito e Domiziano, ebrei e cristiani furono perseguitati in egual misura. Poi Traiano fu più crudele con i cristiani e nel 106 fece crocifiggere Simone, il loro capo. Adriano, invece, fu più spietato con gli ebrei, ai quali vietò, pena la morte, la circoncisione. Nel 130 fece ribattezzare Gerusalemme Aelia Capitolina e successivamente toccò a lui affrontare l’ultima grande rivolta ebraica, guidata da Simon bar Kochba: dopo che l’ebbe sconfitta, scatenò una vendetta che, secondo Montefiore, «fu quasi un genocidio». «Pochissimi sopravvissero», racconta Cassio Dione, «cinquanta avamposti e 985 villaggi vennero rasi al suolo, 585 mila ebrei vennero uccisi in battaglia» e molti altri «dalla fame, dalle malattie e dal fuoco». A tutti loro fu, in seguito, proibito di avvicinarsi ad Aelia. Scomparvero settantacinque insediamenti ebraici, gli ebrei ridotti in schiavitù erano talmente tanti che al mercato di Hebron valevano meno di un cavallo. Adriano, scrive Montefiore, cancellò la Giudea dalla carta geografica, ribattezzandola volutamente Palestina in onore dei filistei, gli antichi nemici degli ebrei. Il suo successore Antonino Pio autorizzò di nuovo la circoncisione. Più favorevoli agli ebrei furono anche Settimio Severo e Caracalla, che incontrò Judah ha-Nasi e lo riconobbe come patriarca della comunità israelitica conferendogli il potere (ereditario) di dirimere le controversie religiose. Più feroce contro i cristiani fu, nel 299, Diocleziano. La città (ma non gli ebrei) conobbe un’età dell’oro dopo che Costantino con l’editto di Milano (313) concesse privilegi alla religione cristiana e soprattutto dopo che nel concilio di Nicea (325) fu sconfitta l’eresia di Ario. Gerusalemme tornò ad essere quella che era stata prima di Tito. Elena, madre di Costantino, trovò tre croci tra cui era quella (la cosiddetta Vera Croce) di Gesù, dandosi nel contempo alla ricerca di tutto ciò che potesse essere considerato sacra reliquia. Per facilitare le conversioni, Costantino ordinò di bruciare sul rogo gli ebrei (da lui definiti «detestabile plebaglia») che tentavano di impedire ai loro confratelli di convertirsi al cristianesimo. Fortunatamente per gli israeliti, il nipote di Costantino, Giuliano l’Apostata — desideroso di averli al fianco all’atto di attaccare la Persia — abolì le tasse agli ebrei, revocò le leggi che li perseguitavano e restituì loro i beni confiscati. Ma nel 425 Teodosio ordinò l’esecuzione di Gamaliel VI, l’ultimo patriarca ebraico, abolì definitivamente la carica e riprese le persecuzioni. Poi, nel corso dei secoli, sostiene Franco Cardini in Gerusalemme. Una storia (Il Mulino), quel centro divenne sempre più un magnete. Fino ai tempi più recenti. «Nonostante potesse provocare forme anche morbose di repulsione, la città possedeva d’altronde anche la prerogativa di colpire con una sorta di fascinazione maniacale, una specie di vera e propria "sindrome di Gerusalemme", una quantità di simpatici (e quasi sempre innocui) dilettanti i quali, dopo una visita in Terrasanta, si improvvisavano orientalisti cimentandosi in laboriose ricerche archeologiche, bibliche o storiche», scrive Cardini. E fu così per secoli. Fino ai primi dell’Ottocento, quando ci fu un salto di qualità. In principio fu il Bonaparte che, nel 1799, avanzò spedito verso la città. Niente si frapponeva tra Napoleone e Gerusalemme, scrive Montefiore, «tranne il Macellaio». Il Macellaio, Jazzar, era Ahmet Pasha, il signore della guerra della Palestina ottomana. Nato cristiano in Bosnia, da dove era stato costretto a fuggire dopo aver commesso un omicidio, Ahmet era stato schiavo a Istanbul, dove lo aveva comprato un ricco egiziano che lo aveva convertito all’Islam e ne aveva fatto il capo dei suoi uomini armati. Era diventato poi governatore del Cairo e si era fatto una grande fama difendendo Beirut dalla flotta di Caterina la Grande, prima che la città si arrendesse ai russi al termine di un lungo assedio. Il sultano lo aveva compensato promuovendolo a governatore di Sidone e poi di Damasco, sotto la cui giurisdizione era Gerusalemme, tenuta dagli Husseini che gli dovevano obbedienza. Jazzar si era fatta la fama di Macellaio mutilando chiunque sospettasse di slealtà. Un inglese che gli fece visita ad Acri notò che era «circondato da persone storpie e sfigurate; a tutti i funzionari e alle guardie alle porte mancava un arto, il naso, un orecchio o un occhio». Il suo ministro ebreo, Haim Farhi, era stato privato «di un orecchio e di un occhio» solo perché fosse «marchiato». Fu anche un massacratore di cristiani e quando sospettò il suo harem di tradimento, uccise 7 delle sue 18 mogli e divenne per tutti l’«Erode del suo tempo». Allorché i francesi assediarono Giaffa, il porto di Gerusalemme, la città fu subito nel panico, una folla saccheggiò i monasteri cristiani e i monaci mobilitarono a loro difesa i gerosolimitani. Per parte sua, Napoleone non fu meno crudele. Bonaparte e le sue truppe «consideravano chiaramente la spedizione contro i musulmani al di fuori delle regole di un comportamento civile». Quando prese d’assalto Giaffa, i suoi «soldati fecero a pezzi uomini e donne, uno spettacolo terribile», scrisse uno degli scienziati francesi al seguito dell’esercito, sconvolto dal «fragore degli spari, le urla delle donne e dei padri, cumuli di corpi, una figlia violentata sul cadavere di sua madre, l’odore del sangue, i lamenti dei feriti, le grida dei vincitori che si litigavano il bottino», finché si diedero pace «sazi di sangue e di oro, sopra un cumulo di morti». Il futuro imperatore decise che, prima di Gerusalemme, avrebbe dovuto conquistare Acri e poi recarsi «di persona a piantare l’albero della Libertà nel punto esatto in cui Cristo aveva sofferto». Stabilì poi che il primo soldato francese caduto nell’attacco sarebbe stato sepolto nel Santo Sepolcro. Il 16 aprile 1799, Napoleone sconfisse la cavalleria di Ahmet nella battaglia del monte Tabor, e quattro giorni dopo emanò un proclama datato (falsamente) da Gerusalemme (che non aveva ancora conquistato). «Bonaparte, comandante in capo degli eserciti della Repubblica francese in Africa e in Asia», si rivolgeva, «ai legittimi eredi della Palestina, unica nazione degli ebrei che sono stati privati della terra dei loro padri da millenni di bramosia di conquista e di tirannia» per dire loro: «Levatevi con gioia, voi esuli, e prendete possesso del patrimonio d’Israele… Il giovane esercito ha fatto di Gerusalemme il mio quartier generale e fra pochi giorni si trasferirà a Damasco in modo che possiate rimanere lì (a Gerusalemme, ndr) a governare». Si può dire, ha scritto Jacques Attali, che il Bonaparte fu un sionista ante litteram. E la storia di Israele avrebbe potuto cominciare di lì… Ma Jazzar, grazie anche all’aiuto del commodoro britannico Sidney Smith, respinse ben tre attacchi dell’armata napoleonica. I francesi lasciarono sul campo 1.200 morti e 2.300 feriti, che — quando dopo tre mesi Napoleone ordinò la ritirata in Egitto — furono in gran parte uccisi dai loro stessi commilitoni per evitare che cadessero nelle mani di Jazzar e fossero fatti a pezzi alla maniera del Macellaio. «In Terra Santa», commentò il generale francese Jean-Baptiste Kléber, «abbiamo commesso enormi peccati e grandi stupidaggini». Quando Bonaparte — dopo aver dato la colpa della sua sconfitta a Smith, «l’uomo che mi ha impedito di portare a compimento il mio destino» — decise di lasciare anche l’Egitto e tornarsene in patria, Kléber aggiunse: «Quel disgraziato ci ha abbandonati con le brache piene di merda». Tutto ciò mentre Sidney Smith, con il consenso di Ahmet e del sultano Selim III, conduceva i suoi marinai (in uniforme di gala accompagnati dal rullio dei tamburi) da Giaffa a Gerusalemme, dove aveva alzato la bandiera britannica sopra il monastero di San Salvatore. Quel giorno il superiore dei francescani dichiarò che «ogni cristiano di Gerusalemme» aveva «un grande debito di riconoscenza verso la nazione inglese e Smith in particolare» perché grazie a loro era stati «salvati dalla mano spietata di Bonaparte». Era la prima volta dal 1244 che truppe europee (o, per meglio dire, «franche») entravano a Gerusalemme. Il principe Potëmkin, l’imperatore Napoleone e il presidente degli Stati Uniti John Adams, scrive Montefiore, «credevano tutti nel ritorno degli ebrei a Gerusalemme al pari dei nazionalisti polacchi e italiani e naturalmente dei sionisti cristiani in America e in Gran Bretagna». Di qui nacque il sionismo. Nel 1836 un rabbino ashkenazita prussiano, Zvi Hirsch Kalischer, cercò fondi per finanziare una nazione ebraica e in seguito ha raccontato la sua storia nel libro Cercando Sion. Poi un rabbino sefardita di Sarajevo, Rabbi Yehuda Hai Alchelai, avanzò la proposta che gli ebrei nel mondo islamico eleggessero dei leader e acquistassero della terra in Palestina. Nel 1862 il rabbino Kalischer stabilì che la restaurazione messianica attesa dal popolo ebraico non si sarebbe verificata per miracolo: «Gli uomini», scrive Cardini, «avrebbero dovuto cooperare alla sua realizzazione; il rientro degli ebrei nella Terra Promessa, in Eretz Israel, sarebbe stato il pegno e il segno della rinascita». E fu in quello stesso 1862, nota Montefiore, che Moses Hess, un compagno di Karl Marx, predisse che il nazionalismo avrebbe portato a un antisemitismo razziale, in Roma e Gerusalemme: l’ultima questione nazionale, che proponeva una società socialista ebraica in Palestina. Fin dal 1841, ricostruisce Cardini, il governo ottomano aveva consentito agli ebrei di disporre di un rabbino capo in Palestina, che avrebbe avuto la sua sede a Gerusalemme. E fu su iniziativa del rabbino Kalischer che l’Alleanza Israelita Universale fondò in Palestina la scuola di agricoltura Mikveh Israel. I primi pionieri ebrei in Palestina, prosegue Cardini, furono «accolti in genere abbastanza bene». Tuttavia «già dal 1891 i notabili arabi del Paese avevano rivolto al governo ottomano un appello affinché si impedisse agli ebrei un "ingresso indiscriminato" e un "incontrollato acquisto di terre"». Nel 1883, nota ancora Montefiore, molto prima che il libro di Herzl Lo Stato ebraico venisse pubblicato, arrivò in Palestina la prima ondata di 25 mila immigrati ebrei. La maggior parte di loro (non tutti però) venivano dalla Russia. Ma Gerusalemme, osserva ancora Montefiore, attrasse anche i persiani a partire dal 1870 e gli yemeniti a partire dal 1880. «Questi gruppi tendevano a vivere insieme nelle loro comunità: gli ebrei di Bukhara, compresa la famiglia dei gioiellieri Moussaieff che avevano tagliato i diamanti per Gengis Khan, crearono il loro quartiere secondo una pianta ben precisa, con grandiose residenze spesso in stile neogotico, neorinascimentale, talvolta moresco, residenze che dovevano somigliare a quelle delle città dell’Asia Centrale». Poi (1896) fu Lo Stato ebraico di Theodor Herzl, quello stesso Herzl che nel 1897 presiedette il primo congresso sionista a Basilea; fu, quindi, la dichiarazione Balfour (1917) che promise agli ebrei il «focolare» in Palestina; e fu la fine dell’impero ottomano (1922). Il kaiser tedesco Guglielmo II era stato, a suo modo, un sionista. Un sionista antisemita. Quando apprese che alcuni israeliti andavano a trasferirsi in Argentina disse: «Oh, se soltanto potessimo inviarci i nostri». E allorché venne a sapere del sionismo di Herzl, scrisse: «Sono molto favorevole al trasferimento dei Mauschels (ebrei) in Palestina. Prima si levano di torno, meglio è». Il che convinse Herzl che «gli antisemiti stavano diventando per lui gli amici più fidati». In ogni caso il kaiser prese la questione sul serio e, in appoggio a Herzl, nel 1898 si recò a Gerusalemme per proporre il suo piano sionista al sultano Abdul Hamid. Senza successo. Le migrazioni comunque proseguirono. Ancora nel marzo del 1919 re Faisal dava il benvenuto agli ebrei che si andavano stabilendo tra Siria e Palestina, riferisce Cardini, dicendosi convinto della possibilità di un «futuro comune di sviluppo delle due comunità in spirito di concordia». Invece poco più di un anno più tardi a Gerusalemme, nell’aprile del 1920 (giorno detto del Nabi Musa, il «profeta Mosè», in quanto consacrato alla sua memoria) scoppiò «la prima grande sommossa araba contro la presenza ebraica». In una città affollata di pellegrini ebrei e cristiani, ricostruisce Montefiore, 60 mila arabi si radunarono per la festa di Nabi Musa, guidati dagli Husseini. Il diarista Wasif Jawhariyyeh li udì intonare canti di protesta contro la dichiarazione Balfour. Il fratello minore del Mufti, Haj Amin al-Husseini incitò la folla mostrando un ritratto di Faisal: «Questo è il vostro re!». La gente gridò: «La Palestina è la nostra terra, gli ebrei sono i nostri cani!» e si riversò nella città vecchia. A un tratto, ricordava Khalil Sakakini, «il furore si trasformò in follia». Molti estrassero pugnali e mazze, gridando: «La religione di Maometto venne fondata con la spada!» La città, osservò Jawhariyyeh, divenne un campo di battaglia. I manifestanti ripetevano a gran voce: «Morte agli ebrei!». Il governatore inglese Ronald Storrs uscì dalla chiesa anglicana dopo il servizio mattutino e «trovò Gerusalemme fuori controllo». Corse al suo quartier generale sentendosi come se qualcuno gli «avesse conficcato una spada nel cuore»: sapeva di poter contare soltanto su 188 poliziotti nella città. Chaim Weizmann presidente della World Zionist Organization fece irruzione nel suo ufficio per chiedere aiuto. Vladimir Zeev Jabotinskij e Pinchas Rutenberg raccolsero delle pistole e radunarono duecento uomini, più di quanti ne avesse Storrs. Ma questi pose il veto a qualsiasi azione. Jabotinskij disattese quell’ordine ed ebbe uno scambio a fuoco con gli arabi. Alla fine si contarono cinque ebrei e quattro arabi morti, 216 ebrei e 23 arabi feriti. 39 ebrei e 161 arabi furono processati. Poco tutto sommato. Ma, scrive Montefiore, «quel giorno iniziò realmente la sparatoria». E non è ancora finita. paolo.mieli@rcs.it