Gianluca Nicoletti per il catalogo della mostra "Kama - Sesso e Design" alla Triennale di Milano fino al 10 marzo 2013 (Dagospia), 10 marzo 2013
Che il cibo e il sesso siano parti di un’unica armonia è pura letteratura. Sono antitesi assolute
Che il cibo e il sesso siano parti di un’unica armonia è pura letteratura. Sono antitesi assolute. Ogni buon piatto è incapace di malizia, ha un suo intangibile candore nell’offrirsi a piena luce per la gioia di commensali. La lussuria, al contrario, si scatena in penombra. Divora e non si lascia divorare, altrimenti banalmente si diluisce nel sentimento amoroso, che introducendo il rispetto uccide i sensi, come una buona pietanza acquieta ogni ansia famelica. L’unica via per cogliere il rovello profondo di un demone carnale imprigionato negli alimenti è cercare di figuraseli come simulacri genitali. Ecco quindi com’è possibile che la mozzarella filante di una parmigiana possa provocare invereconde allucinazioni, le stesse che può accendere una trota salmonata distesa sul fianco, una vongola verace ammiccante tra gli spaghetti, un maccherone che balugina tra le polpettine del ragù. Chi di questo è consapevole, con arte e malizia s’ingegna alla confezione dell’inverecondo commestibile. È già possibile farlo anche semplicemente attingendo dalle parvenze d’ipertrofie genitali che la natura abbondantemente fornisce. La vera arte pornogastronomica trova però massima espressione quando arriva ad addomesticare un oggetto commestibile alle inequivocabili forme del desiderio, quasi che il cibo si lasciasse plasmare dal tormento onirico dell’astinente coatto. Soprattutto in un paese bigotto come l’Italia contemporanea, l’allusione pornogastronomica è l’unica via di fuga dal proibizionismo dei sensi. Sognare su due uova al tegamino, che tentano impudiche, è la consolazione di ogni negletto. Nello sfrigolare dell’olio bollente si allucina la certezza nel poter godere della loro conturbante sfericità, velata appena da trine di albume. Una semplice fantasia a buon mercato, che appaga chiunque non arrivi ad ambire all’offertorio carnale innestato da silicone sollazzevole. Così anche una povera vivanda può rappresentare un surrogato di ben altri paradisi sintetici, i cui onerosi mercimoni solo politici, imprenditori e cardinali possono permettersi. La natura è sempre stata caritatevole, persino misericordiosa, nel fornire in taluni prodotti commestibili succedanei amorosi, efficaci naturali compensatori dell’affocamento di carni, nei momenti della penuria di appagamento tramite contributo umano. Lo sa bene ogni verduraia quando, per le sue clienti più meste, espone la gloria del cetriolo sul palco d’onore della vetrina. Questo è uno sfacciato gigolò dallo sguardo lucido e penetrante, che si esibisce nella sua viridente virilità, un amante infallibile che ognuna può discretamente portarsi a casa per pochi spiccioli. Mai nessun ingegnere specializzato in protesi dildoniche riuscirà a eguagliare tanta perfezione progettuale, in una così felice armonia di aerodinamica e stimolante bitorzolatura. Il generoso cetriolo dopo l’amore abdica il suo ruolo di dominus priapeo, una volta estratto dalla sua occasionale compagna, senza rimpianto ritorna al misero stato plebeo di vegetale. Si affida rassegnato alla lama affilata della stessa crudele mantide casalinga che ha appena posseduto, si lascia quindi tagliare a fettine, per esser sepolto in un’insalata. Scomparirà, assieme al piacere e al rimorso della femmina fedifraga, nella gola inconsapevole dell’uomo che ha appena fatto cornuto. Dell’indecente natura di ogni prodotto alimentare è pure consapevole l’ortolano, che attende con rassegnata inquietudine la felice stagione degli amori, che per lui corrisponde al tardo autunno. È la stagione in cui la zucca raggiunge l’apice della sua maturazione, quando arriva quel giorno, sceglie dal suo campo colei che maggiormente lo ispira con le sue ammiccanti spicchiature. Amorevolmente la spoglia del fogliame urticante, la lucida, la castra del gambo e la fa riposare tra le tegole nelle ore più assolate. Quando allo zenit ella si è interiormente risvegliata in un ribollire viscerale, l’uomo reso folle dal demone lubrico, rapidamente con un pugnale acuminato e tagliente la squarta, ma aprendo sulla sua pancia solo una fessura e per quel che basta... L’uomo libera dunque il suo fascino e finalmente affonda in quelle astruse anatomie aliene, facendosi strada tra semi stuzzicanti come piccoli ossi di seppia. Raggiunge infine l’estasi, lasciandosi risucchiare dagli intimi filamenti di quella natura cucurbitacea, che lo stringe e divora come fauci di pianta carnivora. Anche oltre le mura discrete del convento, ogni saggia badessa sa come lenire con consolatori naturali la segregazione del claustro. A volte ella modella un simulacro in cera d’api, che ancora profuma del miele, della stessa materia di un lume di devozione, è un provvisorio estintore delle fiamme che in lei suscita l’immondo seduttore. Dopo di che ella si adopererà alla cucina benedetta, per esprimere gratitudine al suo confessore, che di tale cedimento l’avrà assolta. La redenta saprà bene come disperdere ogni sua allucinazione peccaminosa, in una catartica manifattura di ogni possibile allusione all’indecenza alimentare, magari riprodotta in frutta martorana. Solo per sentirsi monda da ogni colpa carnale, così volentieri la suora confeziona dolcetti capezzolati, biscottini prepuziali, cannoli che paiono incapaci di trattenere l’eruzione precoce del loro ripieno. Nel girone infernale dei lussuriosi, senza remissione possibile, è dato immaginare che esista un’area specifica destinata agli artigiani della norcineria. È gioco forza che ogni insaccato assuma forme che suscitino l’immodestia, anche in chi solamente ne veda l’esposizione sfacciata dal pizzicagnolo. Non meraviglierebbe se un giorno a qualcuno venisse in mente di proporre, per questa ragione, una sana legiferazione moralizzatrice, quasi un editto che vietasse la vendita del salame intero senza il congruo mascheramento di un ampio sacchetto di spessa carta, che ne nasconda le forme tentatrici. Per la pubblica moralità, ancor di più, potrebbe sembrare auspicabile un’ordinanza che interdica il commercio di salumi, se non decorosamente affettati. Nessun danno alla morigeratezza sarebbe così imputabile all’impudica corallina, ma soprattutto a quell’insaccato, diffuso in terra francescana, che comunemente è detto "Cojoni di mulo"; un vero esempio da scuola di prelibatezza fondata sul principio della più devastante lascivia. Un derivato del suino nel corpo e nell’anima, con l’aggravante dell’iperbole di un nome che, già da molto tempo, avrebbe dovuto suggerirne la perenne messa all’indice da parte degli zelatori della pudicizia alimentare.