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 2012  dicembre 14 Venerdì calendario

EXPO CHE COSA RIMANE, IN UNA CITTÀ VENT’ANNI DOPO

SIVIGLIA. Prima di partire, un’amica cronista – molto andalusa, molto di sinistra e molto arrabbiata – mi avverte: «Non farti infinocchiare dai sivigliani. Anche se te ne diranno meraviglie, l’Expo fu un fracaso, un fiasco. Una pappata gigantesca. E pure una bevuta colossale. Non so quanta acqua sprecarono in quel baraccone. Mentre in altre città era razionata». In effetti – ammiccando all’estro degli antichi dominatori arabi – l’Esposizione fu innaffiata da 130 diavolerie idrauliche. Roba avveniristica. L’acqua giocava nelle fontane, correva per canali e fanta-piscine, oppure – tra lo stupore degli astanti veniva nebulizzata. Sevilla ’92 fu l’ultima Expo dell’opulenza europea. Quando Milano 2015 aprirà i battenti saranno passati 23 anni. Ma solo sul calendario. In realtà è passato un secolo.
Per 176 giorni, in mezzo al Guadalquivir, scintillò un parco delle attrazioni da 215 ettari; 112 Paesi invitati, 98 padiglioni, 45 mila lavoranti, 30 mila spettacoli (regie di Strehler, Ingmar Bergman, Gassman, Peter Brook...), 41 milioni di visite. Vennero Gorbaciov e Mitterrand, le imprescindibili Lady D. e Carolina di Monaco. Ma pure Mario Vargas Llosa e Gabriel Garcia Márquez. Nella mischia, sentivi parlare per la prima volta di cose astruse, tipo banda larga o fibra ottica. E circolavano sparuti cellulari. Traducendo in euro, la kermesse calamitò 4, 2 miliardi di investimenti, costò 998 milioni, ne fece rientrare 966.
Quei primi anni ’90 parevano un prolungamento degli ’80. A Madrid governava un sivigliano, una brillante faina della politica di nome Felipe Gonzalez. E il socialismo quantomeno il suo faceva rima con grandeur. La rinata democrazia spagnola si avventava sulla modernità delle Grandi Opere, dei Grandi Eventi. Con la quota di corruzione che i cantieroni si portano appresso. Giravano un mucchio di quattrini. Che in parte si persero negli oscuri forzieri dei partiti o nelle tasche di qualche bravo prestigiatore. Però oggi te la raccontano come una tangentopoli light, quasi serena, patriottica. Di certo ben fatta: il solito giudice Garzón, provò a frugare negli affarucci dell’Expo senza cavarne granché.
In quello stesso 1992, Barcellona ospitava le Olimpiadi. Ma se i giochi glorificarono soprattutto il rampante dinamismo nazional-catalano, l’Esposizione organizzata nel quinto anniversario della scoperta delle Americhe fu «lo specchio trionfale degli straordinari successi raggiunti dalla Spagna democratica, l’apoteosi della sua riconquistata modernità e del suo gagliardo ritorno in Europa» commentava all’epoca Edgardo Bartoli su Repubblica.
Ma c’è una foto che restituisce il clima di quei giorni i meglio delle parole. Il 25 aprile del ’92 la pubblicò in prima pagina El Correo de Andalucia decano dei quotidiani sivigliani. Mostra una donna anziana, corpulenta, l’aspetto contadino, il vestito scuro, forse vedovile: la signora siede esausta su una panchina dell’Expo, le caviglie gonfie, ma il volto cocciuto di chi ha voluto esserci. Come lei, torme di spagnoli sfidarono l’afa sivigliana, le code massicce, i prezzi non proprio regalati (l’equivalente di 25 euro, il biglietto), pur di non perdersi il Futuro. O il suo spettacolo.
«Fu la più importante operazione di Stato in nemmeno vent’anni di democrazia. L’aspetto e la mentalità di Siviglia ne uscirono trasformati per sempre» ritiene il direttore del Correo, Juan Carlos Bianco. «No, ma lei se la ricorda questa città prima dell’Expo?». Sì che me la ricordo. Per esempio quella dell’estate ’81. Stagione aridissima. Le fontane monumentali spente per via dell’emergenza siccità. I condizionatori domestici potevano permetterseli in pochissimi. Di notte, nel quartiere popolare dove abitavo, la gente dormiva per strada. Si portava le brande sui marciapiedi. Oppure s’allungava su tetti e balconi. Mi parve un posto memorabile. Oggi è più rifinito. «Era una città vetusta, conservatrice, ensimismada – chiusa su se stessa. L’Expo le ha dato un aeroporto, autostrade, ponti, e l’Ave – l’Alta velocità. Ormai ce ne siamo dimenticati, ma a quei tempi fu una scelta contestatissima. Perché si protestava la prima linea veloce dovrebbe collegare Madrid e Siviglia e non Madrid con Barcellona, l’altra capitale?». Perché al comando c’era San Felipe: «Gonzalez era ossessionato dal pericolo di una Spagna a due velocità. Per questo portò qui l’Alta velocità. Non voleva un effetto Mezzogiorno» dice Bianco. La sede del suo giornale sta nel cuore della Cartuja, la penisola sul Guadalquivir dove venne montata l’Expo.
La Cartuja, cioè la Certosa, cioè il monastero di Santa Maria de las Cuevas: oggi è un bel museo d’Arte contemporanea, ma pare che, ai tempi, quel tipo chiamato Cristoforo Colombo ci si ritirasse in prossimità delle spedizioni oceaniche. Prima dell’Expo, questa frangia di Siviglia era una landa lunare dove potevi incrociare tutt’al più qualche carovana di gitani. Adesso è un quartiere dove ogni giorno lavorano o studiano 30 mila persone. C’è un Parco divertimenti, ma soprattutto facoltà universitarie e 370 aziende, laboratori biotecnologici, biomedici, centri informatici. Negli anni pre-crisi, con un fatturato annuo da 1900 milioni, il polo della Cartuja fabbricava il 10 per cento del Pil sivigliano. Dentro nuovi palazzi eco-cazzuti o negli ex padiglioni espositivi. Ne sono stati recuperati una trentina. Incluso quello italiano, firmato Gae Aulenti. Altri, vedi l’audace padiglione ungherese (costruzione effimera, tutta in legno), restano in piedi, ma in cadente letargo. «Per non accollarsi le spese di demolizione, certi Paesi hanno regalato gli edifici alla città. Però riadattarli e mantenerli costa. Nelle casse pubbliche non c’è un soldo. E nemmeno i privati investono» dice Alberto Martin. È tra i volenterosi di Legado Expo, l’associazione che si muove per rivitalizzare la Cartuja. Mica facile.
Dopo l’Esposizione, la zona si afflosciò e stava andando in malora. «Per ragioni economiche, ma anche psicologiche. Alla fine dell’Expo ci fu un bajón, una depressione tremenda. La gente era triste. Questo posto metteva nostalgia, ricordava la festa, nessuno voleva tornarci. E ancora oggi i sivigliani ci vengono poco». C’è da capirli. Perché, si, la Cartuja sarà pure rinata, ma dentro la città rimane un corpo alieno. Arioso, funzionale, e salvo qualche enclave di abbandono per niente degradato, però vitale solo sulle tabelle del Pii. Di sera è un deserto. «Per evitare speculazioni immobiliari» racconta Martin, «qui si decise di non costruire abitazioni. Risultato: un quartiere-ufficio». Poco integrato nella rete dei trasporti urbani e perfino nelle cadenze della vita andalusa. Per dire: nel tardo pomeriggio vado a sedermi in un bar. Tempo pochi minuti, la cameriera piazza sedie capovolte sui tavoli. E mi scocca sorrisi come a dire: Sloggi, porfavor? Non sono nemmeno le otto e mezza. A quest’ora, di là dal fiume, certi bar stanno aprendo. Chiedo alla ragazza di indicarmi una fermata d’autobus per tornare in centro. Lei: «Hmm, complicato. Se vuoi ti chiamo un taxi». Vado ad aspettarlo sull’Avenida. Gli alberi, i lampioni, le panchine sono quelli lasciati dall’Expo. Però in giro non c’è più traccia d’homo erectus.
Sevilla ’92 creò problemi ancora in attesa di soluzione. Ma, nel suo genere, non fu un fiasco. Eppure prenderla a modello alle soglie di Milano 2015 sarebbe delirante. Perché, appunto, è passato un secolo. «Oggi, in Europa, nessuno Stato può più permettersi spese del genere. Deve far squadra coi privati» dice Juan Carios Bianco. Ma le Esposizioni furono una creatura dell’Ottocento: la velocità degli scambi, dell’innovazione, della comunicazione non ne fanno un modello antiquato, vetero-industriale? «Certo, vanno reinventate. Sono operazioni cosmetiche, ma possono ancora essere sfruttate. Specie a livello comunicativo. Prenda l’Expo di Shanghai: è stata un successo. Una vetrina della potenza cinese». Già, ma se l’Italia non è la Grecia figuriamoci, la Cina.
Marco Cicala