Sergio Cantone, il venerdì 14/12/2012, 14 dicembre 2012
SI È RISVEGLIATO IL MOSTRO DI CERNOBYL IL SARCOFAGO NON TIENE PIÙ
Cernobyl. Bisogna venire a Cernobyl per capire davvero la grandezza della minaccia radioattiva che grava su di noi. Invisibile, discreta, sinistra. Il sarcofago del reattore esploso il 26 aprile del 1986 non regge più. E in questi giorni la comunità internazionale affronta il rompicapo atomico con una sfida d’ingegneria estrema in zona contaminata. Si deve costruire un nuovo super hangar, «l’arco», che coprirà la vecchia protezione e il reattore per i prossimi cento anni. In palio, c’è il nostro pianeta. Un progetto ciclopico, finanziato da oltre 40 Paesi, progettato e costruito dai francesi con un ruolo italiano essenziale. Con la creazione della prima intelaiatura, è appena stata completata la fase iniziale dei lavori. Il nuovo sarcofago dovrebbe essere pronto, chiavi in mano, nell’ottobre del 2015. E solo allora potrà partire la fase più difficile e rischiosa dell’intero progetto: si dovrà entrare nel mostro; nel cuore ancora vivo e palpitante del reattore, per rendere inoffensivo il vecchio sito, ma ancora non si sa esattamente come. Se la scommessa riuscirà, si potrà addirittura pensare di poter rivalorizzare economicamente la zona off-limits, con investimenti nella produzione di energia solare. E in questo gioco, le imprese italiane di rinnovabili saranno prime di cordata.
Superati i due check point che delimitano la zona di alienazione, inaccessibile e deserta, attraversiamo boschi e paludi. Ovunque i cartelli segnalano la presenza di radioattività: a macchia di leopardo, lungo la strada, nelle vecchie casette dei contadini sventrate e abbandonate. Intorno, non c’è anima viva. Poi, d’un tratto, nel mezzo di questo paesaggio tenebroso, si staglia davanti ai nostri occhi un intrico metallico sfavillante che svetta nella bruma tra le carcasse dell’ex centrale nucleare. È lo scheletro dell’arco. O, per essere più precisi, il «New Safe Confinement», la gabbia che isolerà il famigerato reattore numero quattro. Lo costruisce il consorzio francese Novarka, composto dai giganti delle costruzioni Vinci e Bouygues. Ma gli elementi in acciaio dello scheletro sono fatti da noi, prodotti a Pordenone dall’impresa Cimolai, poi trasportati a Cemobyl e assemblati sul posto dai perugini della Mci. Il costo dell’opera è di circa un miliardo di euro e i tempi ristretti per la messa in funzione sono da massaggio cardiaco. A lavori ultimati, diventerà una specie di capannone versione gigante. Di acciaio e cemento armato, sarà alto 110 metri, lungo 164 e largo 257.
Ci troviamo proprio sotto il mega telaio, tra tecnici arrivati da tutto il mondo. È una vera torre di Babele, date le dimensioni della struttura e il reggimento multilingue di tecnici iper-specializzati in tuta gialloblu fluorescente e casco bianco che ci lavorano. Ogni lavoratore ha con sé due dosimetri per misurare la radioattività cui è esposto. E ognuno di loro viene sottoposto a controlli medici specialistici periodici e nel cantiere deve attenersi a strette regole di comportamento. Ora sono tutti &, assiepati sui tubi, affaccendati come formiche attorno a una grossa carcassa di animale. A pochi passi da una montagna di tubi in attesa di montaggio incontriamo il direttore esecutivo del progetto. È un ingegnere francese, Nicolas Caille. Con la moglie, vive a Slavutich, una cittadina a circa quaranta chilometri da Cemobyl, fuori dalla zona chiusa. Siamo a soli trecento metri dal luogo del disastro. Ma la radioattività è nella norma, almeno questo ci dicono gli strumenti. «Qui montiamo la struttura, che poi verrà spinta su speciali binari fino a coprire il vecchio sarcofago» spiega Nicolas Caille. Ma quando ci avviciniamo al reattore numero quattro, proprio a ridosso della rete metallica, il contatore geiger di Caille si anima, comincia a emettere bip inquietanti: «Oltre la palizzata la radioattività è piuttosto elevata, B non si può lavorare per più di quattro ore al giorno». Però nessuno sembra aver paura: «la zona è stata bonificata e ci sono meno radiazioni che in natura, in molte zone della Francia o dell’Italia» conclude sbrigativo il direttore dei lavori.
Da queste parti vivono molti tecnici venuti da numerosi Paesi. I francesi hanno anche una scuola per i figli dei dipendenti. In tutto, ci sono centosettanta stranieri, tra cui ventidue italiani. Ne incontriamo due, lavorano per la Mci di Perugia, coordinano l’assemblaggio. «Sono arrivato a marzo del 2012 e me ne andrò nel 2015» dice senza particolare inquietudine il tecnico perugino Filippo Dei. E aggiunge; «in Ucraina non si sta male, a parte i centosessanta chilometri, ottanta ad andare e ottanta a tornare, che dobbiamo fare ogni giorno per venire al lavoro». Per ragioni di sicurezza, infatti, tutti vivono lontano. Anche il cagliaritano Franco Serru sembra soddisfatto dell’esperienza: «ogni quarantadue giorni di lavoro torniamo a casa in Italia, e ci restiamo per dieci o dodici giorni».
Alla vista del sarcofago, però, non ci si abitua. Desta sempre grandi emozioni tra i tecnici ucraini presenti, che con la visiera abbassata fin sulle sopracciglia ricordano ancora le ore concitate di quasi ventisette anni fa. Il vecchio sarcofago venne realizzato alla bell’e meglio subito dopo l’incidente, in una lotta impari dell’uomo contro il tempo e la radioattività, in cui migliaia di tecnici (all’epoca sovietici) lanciati con mascherine di tela e badili contro i radionuclidi pagarono un prezzo enorme, sacrificando la propria salute e quella dei loro figli, e in molti casi anche la vita. Un sacrificio che «salvò il mondo», ricordano gli ucraini, tra orgoglio e tristezza. E che permise anche di continuare a fornire energia alla regione. «Eh sì, perché gli altri tre reattori della centrale nucleare di Cernobyl continuarono a funzionare senza intoppi. Cessarono l’attività tra gli anni Novanta e il 2000. Poterono tirare avanti proprio grazie a quello scatolone di cemento armato» spiegano.
Quel sarcofago confezionato in quattro e quattr’otto con la forza della disperazione è a tutt’oggi l’unica barriera tra il relitto della centrale radioattiva e l’esterno. Ha una vita teorica di trent’anni, quindi la sua scadenza non andrà oltre il 2016. Ma presenta già alcune crepe. «Nelle fenditure s’infiltra l’acqua piovana, cola attraverso il reattore e porta le particelle altamente radioattive verso il basso, impregnando il terreno sottostante. Un giorno, fra qualche anno, se non intervenissimo, con l’erosione l’acqua piovana divenuta radioattiva potrebbe ; lambire le nappe freatiche» spiega l’ingegnere italiano in loden verde, Cario Mancini. Coordina lo Iag, un gruppo di consulenza internazionale che studia i rischi i legati all’opera. «Una volta contaminate: le acque sotterranee toccherà subito al vicino fiume Dnepr, uno dei bacini idrici più importanti dell’Eurasia» prevedono e temono gli esperti.
E si sta parlando solo di uno dei rischi con cui dovremo probabilmente avere a che fare per gli anni a venire. Ecco perché quest’opera estremamente dispendiosa, finanziata dalla comunità internazionale attraverso la Berd, la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo, raccoglie unanime consenso. Contribuiscono ai finanziamenti oltre 40 Paesi, l’Italia è al sesto posto, avendo fatto donazioni per 63 milioni di euro. «Ma non abbiamo contribuito solo finanziando. L’Italia ha anche trasmesso le proprie conoscenze tecniche attraverso Ansaldo nucleare, che ha costruito un impianto di trattamento dei rifiuti nucleari. E ora partecipa alla costruzione dell’arco con le proprie imprese e un contributo di 26 milioni di euro» precisa l’ambasciatore italiano in Ucraina, Fabrizio Romano.
Una volta completato il nuovo sarcofago, questi uomini dovranno affrontare ancora un compito, il più difficile, inquietante, quello per il quale nessuno può mai dirsi davvero preparato: «Si dovrà smantellare e bonificare». Dunque, sarà necessario entrare nelle fauci del drago, all’interno della struttura, per rimuovere polveri e detriti altamente radioattivi e combustibile nucleare, uranio, plutonio. Ci vorranno dai trenta ai cinquant’anni. Ma ben pochi sono in grado di dire oggi chi e in che modo riuscirà ad entrare nell’intercapedine tra il nuovo e il vecchio sarcofago per smontare e pulire. Chissà, «forse lo faranno i robot» ipotizza qualcuno. Per lo stoccaggio dei rifiuti radioattivi è prevista la costruzione di un sito «discarica», una casamatta da 500 milioni di euro, che dovrebbe essere fabbricata da un’impresa Usa. Ma Cemobyl è una minaccia permanente ben difficile da confinare in uno spazio ristretto, sia pur con investimenti generosi. Secondo Greenpeace e altre organizzazioni ambientaliste infatti, «elementi radioattivi come il cesio 137 e lo stronzio sono ancora presenti in alcune regioni dell’Ucraina. In certe zone rurali non lontane dalla zona, in alcuni mercati si acquistano prodotti contaminati, latticini, frutti di bosco, funghi». Difficile stabilire quante siano le vittime, ma queste informazioni non sono mai state smentite. Ciononostante c’e sempre chi pensa positivo, la zona proibita (quella off-limits) di trenta chilometri attorno alla vecchia centrale, infatti, attira progetti per lo sviluppo. La stessa commissione europea aveva finanziato nel 2008 la concezione e la messa a punto di un progetto di sviluppo imprenditoriale all’interno della zona chiusa. L’appalto per la progettazione lo vinse un’impresa italiana, Lattanzi e associati. L’idea fu di produrre energie rinnovabili in un’area colpita da una catastrofe nucleare. Nel 2011 un gruppo di imprese italiane del settore fotovoltaico manifestò il proprio interesse. Dice Sergio Nicola, oggi consulente aziendale in Ucraina e all’epoca direttore di Lattanzi e associati a Kiev: «Se dovesse andare in porto, sarebbe un investimento di 130 milioni di euro: stiamo aspettando il via libera della burocrazia ucraina». Ma perché proprio nella zona proibita di Cemobyl? «Perché lì ci sono condizioni di investimento uniche, le linee elettriche inutilizzate della vecchia centrale disponibili e allacciate, e una minore vulnerabilità per gli investitori». In che senso, scusi? «Beh, sotto gli occhi della comunità internazionale sarebbe difficile per i tycoon locali ordire raid finanziari ostili contro i concorrenti stranieri». Insomma, la zona di Cemobyl è una nuova frontiera, dove oligarchi e società energetiche internazionali sono pronte a darsi battaglia per produrre energia pulita su un tappeto di isotopi radioattivi. Si contendono un vasto appezzamento di terreno in leasing a quarantanove anni, con un potenziale produttivo di 80 Megawatt. Dopotutto lo spazio non manca. E non sarà mai ne una zona residenziale, ne un’area agricola. Ma anche qui il «forse» è d’obbligo.
Sergio Cantone