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 2012  dicembre 14 Venerdì calendario

RICORDI SCRITTI SOPRA UN LENZUOLO - «E

così la vita è come un rastrello quello che si mucchia l’erba: che à forza di tirare un brutto giorno si rompe il manico e tutto à fine». Sintassi zoppicante e ortografia incerta, punteggiatura capricciosa. Ma non è con questi criteri che va giudicata Clelia Marchi, una contadina di Poggio Rusco (Mantova), nata nel 1912 e morta nel 2006 dopo aver visto morire quattro figli su otto, aver vissuto due guerre mondiali, aver sofferto la povertà e la durezza del lavoro, aver perso il marito per un incidente stradale. Clelia conosce il bell’Anteo dagli occhi azzurri a 14 anni, lo sposa a 16 e vive con lui fino al ’72 quando insieme potrebbero godersi i figli, i nipoti e i pronipoti. La morte di Anteo la precipita nel baratro dell’angoscia: Clelia si ritrova sola nel letto matrimoniale e non riesce più a prendere sonno, si sente «come una vite senza l’albero». Così, decide di passare le notti scrivendo. Raccoglie fogli, cartoncini, biglietti, li cuce insieme per farne dei quaderni e comincia a scrivere senza fermarsi più, finché rimane senza carta. E che fa allora? Clelia si ricorda che la maestra Martini Angiolina le disse una volta che gli etruschi avvolgevano le mummie nei lenzuoli, allora apre l’armadio, prende un lenzuolo del corredo e con un cuscino sulle gambe, distendendo bene il cotone, come una ricamatrice attacca a mettere sulla tela i propri ricordi, di getto, frase dopo frase, riga dopo riga. «Le lenzuola non le posso più consumare con mio marito — disse — e allora ho pensato di adoperarle per scrivere».
Nel 1985 il drappo bianco è un libro, un libro di 185 lunghissime righe vergate da un capo all’altro, una sull’altra, e numerate per aiutare il possibile lettore a non perdere il filo. Incollato in alto, tipo frontespizio, il sacro cuore di Gesù, al centro e ai lati la fotografia di Clelia e quella del marito. Il titolo: Gnanca na busia, neanche una bugia. L’anno dopo il sindaco del suo paese le consiglia di andare a Pieve Santo Stefano con il suo quaderno per farlo leggere a Saverio Tutino, che nel frattempo ha inaugurato l’Archivio diaristico degli italiani. «Clelia Marchi — ricorderà Tutino — arrivò a Pieve Santo Stefano un giorno d’inverno del 1986, col suo lenzuolo sotto il braccio. Era venuta in treno fino ad Arezzo. Era scesa dalla corriera, con l’aria compunta e festosa delle donne già avanti negli anni, che hanno trascorso una vita intiera senza mai uscire dal loro comune di nascita. Un viso bello, incorniciato da una capigliatura canuta e ben pettinata, le trecce attorcigliate, gli occhi sfavillanti. Portava l’età indefinita di una capofamiglia contadina vestita bene per una cerimonia».
Il lenzuolo resterà a Pieve, appeso in una stanza come fosse il documento fondante dell’Archivio. Nel 1989, Luca Formenton è in visita a Poggio Rusco, paese natale di nonno Arnoldo Mondadori, e viene a conoscenza del lenzuolo, così l’autobiografia della Marchi esce nel ’92 per la Fondazione Mondadori e ora viene opportunamente riproposta dal Saggiatore con la prefazione originaria di Tutino preceduta da uno scritto sobrio e partecipe di Carmen Covito (Il tuo nome sulla neve, pp. 98, 12). «Questo è il vero albero degli zoccoli vero sincero», scrive Clelia. In effetti nella sua storia c’è la povertà della campagna, ma anche la forza antica di chi vuole sconfiggere il proprio destino. E il lenzuolo-libro è l’ultimo gesto di orgoglio, secondo Carmen Covito non un’autobiografia ma «un monumento funebre al marito, e a se stessa»: nato dal fermo desiderio di trasmettere ai posteri la memoria di un amore. Pensate, una donna che ha visto morire i suoi bambini, che ha avuto un fratello distrutto dal tifo e un altro caduto in Africa, una donna che ha sofferto la fame e la malattia, che ha vissuto la fine prematura dei genitori, una donna che con quattro figli si buttava nei fossi durante i mitragliamenti, mentre sua madre rimaneva paralizzata in casa aspettando le bombe; una donna che ha lavorato come un mulo nei campi, una donna che sembra indistruttibile crolla quando viene meno il marito. È solo allora il rastrello si spezza e tutto finisce, la vita («solo un’ombra che passa sulla terra») diventa insostenibile, perché «quando dei due uno muore… una parte del suo corpo di chi rimane è già morta». Così, se le prime ottanta righe sono un flusso più o meno lineare di ricordi, anche se a volte Clelia è costretta a tacere il troppo dolore («non ne parliamo più che mi cadono le lacrime con tutti questi ricordi!»), le righe finali sono un lento avvicinamento filosofico al bell’Anteo dagli occhi azzurri.
Paolo Di Stefano