Marco Onado, Il Sole 24 Ore 14/12/2012, 14 dicembre 2012
MA L’AMERICA È PIÙ RAPIDA
Nel giro di poche ore, l’Europa e la Federal Reserve hanno dato due risposte importanti alla crisi. Nel Vecchio continente, l’unione bancaria ha visto finalmente la luce. La rituale maratona notturna si è conclusa con un compromesso tutto sommato ragionevole in termini di tempi e di banche direttamente sotto la responsabilità della Bce (da 150 a 200). Poche ore prima, la banca centrale americana ha annunciato di voler essere ancora più aggressiva (ed eterodossa) nello stimolare la crescita dell’economia e il riassorbimento della disoccupazione. Due risposte diverse, anche perché diversi sono i problemi di fondo, che identificano anche traiettorie molto differenti di uscita dalla crisi. Il problema finanziario dell’Europa ha tre dimensioni: un eccesso di debito (privato prima ancora che pubblico, tranne che in Italia) che deve essere riassorbito e che nel frattempo pesa come un macigno sulle banche; una continua contrazione dell’economia, che aumenta il peso del debito e peggiora la qualità dei prestiti; infine il sospetto che ci siano differenze macroscopiche da un Paese all’altro nella effettiva robustezza patrimoniale delle banche. Alla fine di novembre la Bank of England ha sollevato fieri dubbi sui bilanci delle banche britanniche e ha stimato un deficit di capitale compreso fra i 20 e i 50 miliardi di sterline. Una delle cause sta in un vecchio problema: l’opacità (favorita da supervisori finora compiacenti) intorno ai criteri con cui le banche calcolano il fabbisogno di capitale previsto dalle regole di Basilea. Ma è solo un esempio dei molti punti interrogativi sospesi su tante banche europee. Non nel nostro caso, però perché negli stessi giorni, la Banca d’Italia ribadiva che le differenze fra banche in materia di fabbisogno di capitale sono spiegate solo da condizioni operative diverse. Anche in materia di accantonamenti sui rischi le situazioni nazionali presentano differenze intollerabili. Credere, come si dovrebbe fare guardando ai dati ufficiali, che le banche spagnole abbiano un rapporto fra sofferenze e impieghi poco più della metà delle banche italiane, richiede uno sforzo di ottimismo eccessivo anche per Pangloss. L’unione bancaria deve appunto porre fine a questa cortina di incertezza che avvolge il sistema finanziario europeo e che non ha avuto effetti drammatici solo perché l’azione decisa della Bce ha dato l’ossigeno che il mercato avrebbe negato a tutti, comprese le banche come quelle italiane, che per virtù proprie o perché indotte da una vigilanza più occhiuta sono state finora più trasparenti e realiste delle altre. Nella sua analisi di ottobre, il Fondo monetario aveva individuato nel sistema bancario europeo il punto nevralgico della crisi e aveva detto che se non si fosse almeno mantenuto quanto promesso per una maggiore integrazione, l’impatto sull’economia reale avrebbe potuto essere disastroso. L’unione bancaria è uno dei punti cruciali delle misure che il Fondo riteneva indispensabili e dunque la decisione di ieri è sicuramente positiva. Il problema è che è solo il punto di partenza per fare chiarezza sui bilanci delle banche europee. Altri ostacoli, ispirati dalle gelosie nazionali, dovranno essere superati perché la Bce e l’Eba traducano in pratica una vigilanza di cui troppo tardi si è riconosciuta la natura di indispensabile supporto alla politica monetaria comune. Ma c’è di più. La decisione quasi contemporanea della Fed rischia di ampliare il divario fra America ed Europa in termini di risposta alla crisi. Non solo in termini di crescita economica (l’America continua a crescere a tassi intorno al due per cento contro valori negativi per l’Europa) e di occupazione (il 7,7 americano che Bernanke vuole portare al 6,5 si confronta con il 12 europeo) ma anche in termini di velocità di assorbimento dell’eccesso di debito che è la causa prima della crisi finanziaria. Il dibattito americano ed europeo sul rigore nelle politiche di bilancio rischia di far dimenticare che i livelli raggiunti dal debito privato in molti Paesi non sono sostenibili nel medio periodo. L’Italia fa eccezione dal punto di vista del debito privato, ma la situazione sta peggiorando velocemente anche da noi. Il rapporto debito delle imprese su valore aggiunto (la loro quota di Pil) cresce costantemente nell’ultimo decennio dal 120 al 180 per cento. È la prova più evidente che l’Europa non solo non ha ancora iniziato il processo di metabolizzazione dell’eccesso di debiti creati nel passato, ma addirittura rischia di vedere aumentare il peso reale dei debiti anche nei Paesi finora più prudenti. I dati aggregati dicono che il debito privato europeo è oggi al 165 per cento del Pil, superiore, anche se di poco, a quello di inizio crisi. Negli Stati Uniti è invece sceso di 21 punti e si è portato al 159 per cento. Se si tiene conto che le banche americane sono molto più patrimonializzate di quelle europee (nella misura rozza ma inequivocabile di rapporto fra capitale e totale attivo) si ha un’idea del gap che esiste fra le due sponde dell’Oceano in termini di uscita dalla crisi. Questo gap rischia di accentuarsi per effetto della svolta decisa dalla Fed, che rende praticamente certo che il tasso di interesse del debito di imprese e famiglie americane sarà inferiore al tasso di crescita nominale del Pil, assicurando per questa via un percorso graduale (anche se non esente da rischi) di riassorbimento dell’eccesso di debito. L’opposto di quanto accade in Europa, soprattutto nei Paesi periferici, in cui i tassi pagati dal settore pubblico e da quello privato sono ben superiori ad un tasso di crescita nominale che si ostina a rimanere vicino allo zero. Insomma: l’Europa ha fatto un grande passo avanti, ma l’America sembra intenzionata a procedere in modo ben più spedito. La soddisfazione per il traguardo raggiunto deve solo essere uno stimolo per accelerare.