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 2012  dicembre 14 Venerdì calendario

L’EGITTO PRESO A MORSI


Gerarchia. Se deve racchiudere in una parola tutto ciò in cui crede Mohamed Morsi, il presidente egiziano, un ragazzo che lo conosce bene, Abderrahmane Ayash, sceglie questo vocabolo. Ayash se lo ricorda bene quel giorno del 2007 quando, a capo di un gruppo di giovani Fratelli musulmani, incontrò il futuro Faraone per contestare un punto del programma politico ufficiale che impediva alle donne e ai copti l’accesso al grado di Capo dello Stato: «Quando ci ha convocato credevamo di poter dialogare con lui, ma ci ha subito detto che nessuno aveva il diritto di mettere in discussione le decisioni dei vertici». Autoritario, inflessibile, deciso, glaciale. «Capace di argomentare per un’ora su un documento senza spendere un commento sul contenuto. Un superburocrate». Anche a causa di questo “centralismo democratico” in salsa islamica Ayash lascerà la Fratellanza. Ma la sua testimonianza è uno squarcio di luce sul passato misterioso di quello che è diventato “L’uomo più importante del Medio Oriente”, come da copertina dell’ultimo numero di “Time”. Dove il mistero non riguarda tanto la sua biografia quanto la sua personalità, il suo credo politico, visto il ricorso ossessivo alla “taqiya”, la dissimulazione, prevista dal Corano se usata nell’interesse dell’Islam. Un linguaggio per gli adepti e uno per gli oppositori. Uno per il mondo arabo e uno per l’Occidente. Nel concreto: la difesa verbale della democrazia ma il ricorso a poteri dittatoriali; la libertà di espressione e il potere ai militari di arrestare i civili per proteggere l’ordine pubblico. La promozione delle donne nella vita sociale e una Costituzione, al minimo, ambigua sul loro ruolo. Senza contare il sospetto che, forse, dietro un agire tanto ondivago, c’è la lunga mano dei burattinai che tengono la linea da seguire. Perché non era lui il Prescelto per la carica massima ma la “ruota di scorta” e più che al popolo egiziano deve rispondere alla volontà del movimento di appartenenza. Gerarchia, appunto.
C’entrano qualcosa nel rispetto assoluto per l’autorità le umili origini? Mohamed Morsi, nasce nel 1951, maggiore di cinque fratelli, a Edwa un villaggio di campagna sul delta del Nilo. Ricorderà spesso che il padre analfabeta lo accompagnava nella scuola troppo distante sul dorso di un mulo, per sottolineare la condivisione delle sofferenze coi suoi concittadini ma anche la chance, per chi ha grinta, di prendere l’ascensore sociale. Il buon profitto gli apre le porte della facoltà d’ingegneria dell’università del Cairo dove si laurea, con perfetta tabella di marcia, nel 1975. È nelle aule della capitale che comincia a respirare il vento dell’islamismo, allora assai popolare tra gli studenti perché favorito dal presidente Sadat, preoccupato di contenere i movimenti di sinistra. Aderisce alla Fratellanza e sposa, nel 1979, la cugina Naglaa Ali Mahmoud, allora diciassettenne, pure originaria del nord dell’Egitto e devota ai precetti della religione. Quando diventerà first lady rifiuterà quell’appellativo troppo moderno e poco consono per chi indossa il khimar, il velo che copre volto, capelli e busto e lascia scoperto il viso: «Respingo il titolo di prima donna d’Egitto. L’Islam ci insegna che le guide del popolo sono anche i loro servi. E le mogli devono aiutare il marito come lui serve la gente».
Partono, i novelli sposi, per gli Stati Uniti dove Mohamed ha ottenuto un incarico di professore associato alla California State university di Northridge. Avrà anche un contratto con la Nasa per sviluppare i motori dello Space shuttle. Di quel periodo si ricorda la passione per il football e il tifo per i Trojans la squadra dell’università. Al sole del Pacifico resterà per sei anni e lì nasceranno i primi due dei cinque figli (che dunque hanno la cittadinanza statunitense). Come eredità, amicizie che non si sono perse col tempo e una percezione diversa rispetto a quella dei suoi connazionali: «Non mi piace quando nel mio Paese sento la gente dire che “l’America è contro di noi”. Perché so che non è così».
Nel 1985 gli offre una cattedra l’università di Zagazig e torna in patria dove si riattiva la sua passione politica. Diventa un attivista dei Fratelli Musulmani e si fa notare per le doti organizzative tanto da accedere ben presto al cruciale ufficio politico del movimento. Benché sia assai influente, anche come stratega, lavora sottotraccia, lascia agli altri le luci della ribalta. Al punto che, quando il suo nome emergerà come candidato futuro presidente, persino al desk arabo del Dipartimento di Stato a Washington si chiederanno: «Morsi chi?». Eppure era stato sì nell’ombra ma non invisibile. Membro dell’esecutivo della Fratellanza. Eletto in Parlamento dal 2000 al 2005 quando denuncia il governo per aver permesso la circolazione di riviste con nudi in copertina oltre alla trasmissione in tv di scene «immorali» e si oppone al concorso di Miss Egitto perché contrario, tra l’altro, alle norme della Sharia. Arrestato, incarcerato e condannato a sette mesi nel 2006 per le proteste anti-regime (nota indispensabile nella biografia di un oppositore). Soprattutto un lavoro indefesso per radicare il gruppo sia al Cairo sia nell’Egitto rurale.
Però altri si prendevano il ruolo di attori protagonisti. E nessuno pensa a lui come candidato presidente quando Hosni Mubarak cade e si apre la prospettiva del voto. Il movimento si fa partito (Libertà e giustizia) e pensa al potente, carismatico e ricchissimo industriale del tessile Khairat el-Shater, ma la Commissione elettorale lo squalifica perché è appena uscito di prigione quando il regolamento vuole che il papabile sia un libero cittadino da almeno sei anni. Mohamed Morsi è la seconda scelta, il ripiego dell’ultima ora su cui nessuno punterebbe una lira. Troppo grigio, troppo impacciato e senza carisma. L’élite del Cairo sforna battute e barzellette sui suoi discorsi tentennanti, la poca eleganza e i modi spicci. Sottovaluta, però, il carattere cordiale ed educato che piace al popolo e lo fa sentire «uno di noi». Seppur velata, la moglie lo accompagna in alcune occasioni pubbliche presentandosi alla maniera araba come “Um Ahmed”, la madre di Ahmed, il primogenito: il contrario dello sfarzo occidentale di Suzanne Mubarak. Naglaa, con parole semplici traccia anche un programma politico: «Abbiamo un progetto per l’Egitto. Un sistema in cui la sanità, l’educazione, gli investimenti e l’economia si svilupperanno per il bene del Paese».
Seppur di poco, col 51,7 per cento dei voti, il 24 giugno scorso l’ex Carneade Mohamed Morsi vince. E da allora la storia, invece di camminare, corre su un doppio binario. Diventa, a seconda delle circostanze, l’uomo pacifico in grado di rassicurare Israele sul rispetto degli accordi di Camp David e la comunità internazionale sulla sincerità della sua vocazione democratica, o il nuovo Faraone che col decreto del 22 novembre (parzialmente ritirato) si pone al di sopra della legge e vuole varare, dopo referendum, una Costituzione giudicata un tradimento della rivoluzione dai ragazzi di piazza Tahrir per la sua impronta fortemente religiosa e contraria ai valori liberali. Gli eventi interni ed esterni lo costringono a un attivismo che lo proietta sotto i riflettori. E non potrebbe essere altrimenti visto che guida un Paese-chiave per gli equilibri della regione più infuocata del pianeta. È il primo presidente egiziano che vola a Teheran dopo l’avvento degli ayatollah per il vertice dei non allineati ma si distingue per le critiche alla Siria che dell’Iran è alleata. Si spinge sino in Cina per cercare un nuovo partner anche economico e non dipendere solo da Washington. Appoggia i correligionari di Hamas durante la guerra degli 8 giorni con Israele ma poi si prodiga con Hillary Clinton per il cessate il fuoco. In casa rimuove il feldmaresciallo e capo di Stato maggiore Mohamed Tantawi e altri ufficiali dell’era Mubarak per sostituirli con uomini più vicini al nuovo corso.
Le piazze incendiate dal suo decisionismo liberticida (dietro cui si vede la mano della guida spirituale dei Fratelli Mohamed el Badie) sono solo la prima delle sue preoccupazioni. La seconda è l’economia. Il 19 dicembre il Fondo monetario dovrebbe decidere per un prestito di 4,8 miliardi di dollari all’Egitto per ridurre un deficit arrivato all’11 per cento del Pil. Morsi, per dare prova di buona volontà e ottenere quei soldi aveva deciso un aumento dell’Iva e una riduzione dei sussidi su energia e altri prodotti. Provvedimento ritirato per non esasperare ulteriormente la gente e convincerla a votare la sua Costituzione. Ammesso che la libertà abbia un prezzo.