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 2012  dicembre 14 Venerdì calendario

BIG DATA REVOLUTION


Luglio 2012. Il periodo dei Giochi Olimpici si annunciava particolarmente delicato per Transport for London. Il numero di viaggi sul territorio amministrato dall’azienda di trasporti pubblici della capitale britannica era previsto ovviamente in aumento, da 12 a 15 milioni al giorno. Una prospettiva da far rizzare i capelli ai manager della società. Questi ultimi avevano però un potente alleato su cui fare affidamento: i dati. Sfruttando le informazioni di accesso ai mezzi provenienti dai chip della Oyster card, la tessera dei trasporti utilizzata da moltissimi viaggiatori, monitorando gli spostamenti dei possessori di smartphone connessi alla rete Wi-Fi della metropolitana e incrociando queste informazioni con altri parametri (ad esempio l’ora e il luogo degli eventi che promettevano di richiamare folle di spettatori) sono stati in grado di predire, con una certa accuratezza, quali sarebbero state le stazioni più affollate e di suggerire percorsi alternativi ai pendolari in transito. Il che ha permesso di contenere i disagi.
Quello londinese è soltanto uno degli ultimi esempi di come, quella che è stata ribattezzata la "rivoluzione dei dati", sia destinata a cambiare la vita quotidiana e le scelte di milioni di persone. Gli addetti ai lavori hanno coniato un termine ad hoc: Big Data, ripetuto ormai come un mantra in decine di conferenze in giro per il mondo.
Un modo per indicare l’aumento esponenziale nella produzione di dati avvenuto negli ultimi anni (due esempi: nel solo 2011 è stato creato un decimo di tutte le foto mai scattate dall’umanità; a ogni persona nata nel 2012 saranno associati, direttamente o indirettamente, più dati di quanti ne siano stati generati in tutti i secoli precedenti). Ma anche per parlare di un salto qualitativo nel trattamento degli stessi: «La peculiarità dei Big Data», spiega il professor Carlo Vercellis, responsabile dell’Osservatorio Business Intelligence del Politecnico di Milano, «è che non possono essere conservati in un unico database, ma richiedono un architettura distribuita sparsa su più server». Si tratta di informazioni di vario tipo: non solo numeri ma anche testi, immagini video, aggiornabili spesso in tempo reale. Dalle misurazioni dei contatori dell’Enel ai cinguettii di Twitter, dalle foto di Instagram ai video di YouTube non è certo la materia prima a mancare. Per aziende e istituzioni, il termine Big Data indica soprattutto un modo di trasformare questa mole di informazioni in moneta sonante, scoprendo pattern ricorrenti, correlazioni invisibili a occhio nudo ma rese evidenti dagli strumenti informatici.
Qualche esempio: le compagnie di telecomunicazione incrociano i dati sull’uso delle Sim per capire quali sono i clienti che hanno maggiori probabilità di cambiare operatore e proporre loro sconti e offerte, quelle del settore alimentare monitorano e analizzano le conversazioni sui social network prima di lanciare un nuovo prodotto per prevenire eventuali problemi; le aziende di trasporti incorporano sensori nei propri veicoli per controllare lo stato di usura dei componenti e poter ottimizzare i tempi di manutenzione.
Non mancano iniziative interessanti nel settore pubblico. Come quella dell’Agenzia delle Imposte svedese, che grazie all’incrocio di varie fonti invia ai cittadini i moduli delle tasse precompilati. A questi ultimi non resta che firmare, oppure richiedere delle modifiche via Sms o Internet. Altro esempio degno di nota è quello del Bundesagentur für Arbeit, l’ufficio del Lavoro tedesco, che analizzando lo storico dei dati è riuscito a individuare gli interventi più efficaci, riducendo i costi e al contempo diminuendo il tempo necessario a un disoccupato per trovare impiego.
Un rapporto McKinsey del maggio 2011 quantifica in 250 miliardi di euro annui il surplus di valore che il settore pubblico del Vecchio Continente potrebbe generare grazie alla profondità e al tipo di analisi resa possibile dai Big Data. Altri 300 miliardi, di dollari, potrebbero essere risparmiati con lo stesso sistema nel solo settore sanitario Usa, tagliando sprechi e inefficienze.
Anche il settore no-profit potrebbe usare i Big Data per migliorare il proprio rendimento. Alle Ong non fanno certo difetto i dati, demografici e di altro tipo e molte altre informazioni utili sono reperibili con facilità, man mano che gli organismi come la Banca mondiale e gli stessi governi rendono disponibili on line i propri archivi.
«Il problema», spiega Jake Porway, giovane genietto del computer che ha lavorato anche per il Pentagono e il "New York Times", «è che le due categorie, i volontari sul campo e gli scienziati, non si parlano fra loro». Per questo Porway ha fondato Datakind, una società che fornisce consulenza a varie organizzazioni umanitarie, aiutandole a trarre profitto dal loro patrimonio di informazioni.
Di ancor più ampio respiro è un’iniziativa delle Nazioni Unite, Global Pulse. Rivolta ai Paesi in via di sviluppo, promuove l’uso dei Big Data per individuare i "segnali di fumo digitali" che dovrebbero consentire di prevenire fenomeni di degrado, miseria e la diffusione di epidemie.
Non è utopia. Già oggi nel nord della Nigeria la poliomielite è stata quasi debellata estendendo il raggio di azione del programma di vaccinazione; interi villaggi che non comparivano nelle mappe sono stati raggiunti seguendo il segnale emesso dai cellulari.
Insomma, con i dati si può fare un po’ di tutto, dal vendere un prodotto al salvare una vita; il che spiega come mai Andreas Weigend, ex responsabile tecnologico di Amazon li abbia definiti "il nuovo petrolio". «E come il petrolio», aggiungeva Weigend , «da soli non servono a nulla. Devono prima essere raffinati».
Fra la fase di raccolta delle informazioni, e quella della generazione del modello matematico che cercherà le correlazioni nascoste fra di loro, c’è il processo più delicato: quello in cui si cerca di individuare anomalie, scorrettezze e inesattezze nel materiale a disposizione e in cui i dati vengono trasformati in maniera tale da poter essere trattati con maggiore efficacia dall’algoritmo.
È il lavoro del "data scientist", una delle poche figure professionali che nel prossimo futuro non sembra destinata a correre rischi di disoccupazione. Solo negli Usa, stima McKinsey, entro il 2018 ne serviranno fra i 140 mila e i 190 mila Le università stanno già iniziando ad adeguare la propria offerta formativa. Anche in Italia, dove il consorzio torinese Top-Ix ha dato il via ad ottobre al progetto Big Dive che formerà una ventina di specialisti dei Big Data. Professionisti destinati ad essere contesi dalle aziende, che vedono nella capacità di predire il futuro un’arma in più. Contro la concorrenza e per sedurre il consumatore.
Tutto questo però, specie per le opulente società occidentali, ha un prezzo. In sintesi, la rinuncia a qualsiasi riservatezza in cambio della personalizzazione di beni e servizi. E il rischio, per il consumatore, di essere manipolato o discriminato senza nemmeno conoscerne il motivo. Come accaduto ad alcuni clienti di carte di credito, che si sono visti abbassare il tetto di spesa perché i negozi in cui si recavano erano gli stessi di alcuni debitori insolventi, o succede alle clienti in dolce attesa della catena americana di ipermercati Target, identificate dall’azienda sulla base dei loro acquisti e fidelizzate con offerte e sconti ad hoc in un momento in cui sono particolarmente ricettive e vulnerabili.
Aziende e governi sono in grado di creare profili sempre più particolareggiati dei cittadini, senza che questi ultimi abbiano di fatto un vero controllo sulle informazioni da loro prodotte. Un processo poco trasparente, che andrebbe regolamentato dall’alto; tanto che da più parti si sono levate richieste di trattare il problema dei dati come una questione di diritti civili. Ma i mutamenti culturali, si sa, avvengono molto più lentamente di quelli tecnologici. «La sensazione», commenta Vercellis, «è che in tutto il mondo si ci si stia muovendo verso un annullamento delle tutele a difesa della privacy».
In molti casi questo significherà vivere più comodamente; d’altro canto, saremo sotto costante osservazione. Benvenuti nell’era dell’uomo di vetro.