Gianluca Di Feo; Carlo Nanni, l’Espresso 14/12/2012, 14 dicembre 2012
CAPROTTI DYNASTY
C’è un palazzo nel cuore antico di Milano, in una stradina prestigiosa alle spalle della Scala, che desta la curiosità del vicinato. L’edificio nobiliare, con un cortile ingentilito da una fontana, ha tre piani ma due sono chiusi e bui da decenni: soltanto quello centrale viene abitato, gli altri hanno le persiane sbarrate tanto da meritargli il soprannome di "casa dei fantasmi". È la dimora dei Caprotti, i fondatori di Esselunga: lì si sono vissuti i momenti chiave della dinastia che ha cambiato le abitudini degli italiani. La visita di Nelson Rockefeller, l’uomo più ricco del mondo, che negli anni Cinquanta sancì l’accordo per la nascita dei primi supermarket del nostro Paese. Le cene in famiglia per trasformare quel progetto in un’azienda che oggi fattura più di sei miliardi l’anno. Ma anche le liti, le trame e i tradimenti che "l’Espresso" può raccontare per la prima volta grazie ai documenti inediti sulle controversie legali che si sono accavallate negli ultimi quarant’anni attraverso tre generazioni.
Il protagonista assoluto è Bernardo Caprotti, rimasto a 87 anni alla guida dell’impero commerciale. Solo, continua a vivere nell’unico piano illuminato del palazzo milanese. Una figura di imprenditore accorto e geniale, che ha innovato il suo gruppo senza fare nemmeno un passo falso. Ma che gli atti esaminati da "l’Espresso" ritraggono in modo molto diverso dall’autobiografia vergata nel primo capitolo di "Falce e carrello", il volume stampato in milioni di copie per contestare l’invadenza delle coop rosse nella grande distribuzione. Nell’esordio Bernardo Caprotti scrive: «Da mio padre appresi i fondamentali valori borghesi, la frugalità e il rispetto per la parola data».
Solo ora, però, si scopre che trent’anni fa i due fratelli gli hanno fatto causa, sostenendo di essere stati ingannati e buttati fuori dall’azienda. Mentre oggi i suoi due figli maggiori si sono rivolti ai giudici. Identica l’accusa: Bernardo avrebbe tradito la parola data e gli impegni sottoscritti per prendere il controllo di Esselunga. Un copione che si ripete ciclicamente da mezzo secolo: padri che sconfessano figli; fratelli messi l’uno contro l’altro, poi delegittimati e privati delle quote societarie. Finché tutto resta in mano a Bernardo, tanto abile nelle manovre finanziarie quanto determinato contro chi gli si oppone. E convinto, come ha spiegato a "l’Espresso", di «avere sempre agito nel rispetto di tutte le regole».
È una vera dynasty, una saga lombarda che comincia con una fabbrica tessile aperta in Brianza nel 1830. E sboccia dopo la Grande Guerra nel matrimonio di Giuseppe Caprotti, il padre di Bernardo, con Marianne Maire, l’erede di una casata alsaziana abituata all’industria e all’arte. Uno spaccato della Belle Époque, fatto di viaggi in Francia su vetture con chauffeur, ricevimenti in giardino e battute di caccia nella tenuta di famiglia a Albiate. È in questo mondo dorato che crescono Bernardo, classe 1925; Guido, nato nel 1929, e Claudio, più giovane di nove anni.
Il ventennio mussoliniano non è un momento brillante per gli affari. In "Falce e carrello" si sostiene che l’opposizione della famiglia al regime ostacola l’attività dell’azienda. Dagli archivi però emerge una realtà differente: il nonno di Bernardo Caprotti è addirittura tra i finanziatori della Marcia su Roma (vedi box a pag. 67) e anche il padre concede due piccole elargizioni al Partito Fascista, al quale lui stesso è iscritto.
Ma la guerra risparmia gli impianti e la rinascita arriva nel 1947 con una spedizione a New York, via Parigi: sono i parenti francesi ad aprire le porte del Nuovo Mondo. Un cugino emigrato negli Stati Uniti è entrato nello staff del presidente Truman, che sta lanciando il Piano Marshall per ricostruire l’Europa e tenere lontano il comunismo. Grazie a telai meccanici d’ultima generazione made in Usa, la Manifattura Caprotti diventa un’eccellenza che macina profitti. Anche il giovane Bernardo si forma per un anno negli Stati Uniti, imparando i segreti delle industrie più moderne.
In Brianza, però, le relazioni con il padre erano state aspre. Lo testimoniano i ricordi dei fratelli minori. E quando nel 1952 Giuseppe muore in un incidente stradale, la lettura del testamento sembra confermare la profondità dei contrasti. I beni sono divisi in parti uguali tra i figli, ma Bernardo viene escluso dalla villa di Albiate, il luogo simbolo della famiglia: «Un atto di valore morale che consegue ai forti dissapori con il genitore negli ultimi anni della sua vita». Oggi Bernardo respinge questa ricostruzione: «Il testamento era stato scritto nel 1942, da allora i rapporti con mio padre sono stati ottimi». E piange, ricordando ogni attimo di quella tragedia.
In ogni caso, gli altri eredi all’epoca difendono la concordia tra fratelli. Il secondogenito Guido, che ha solo 23 anni, insiste perché il lascito venga annullato: chiede che siano tutti per uno e uno per tutti, come i moschettieri di Dumas. Poi se ne pente: «Invece il carattere litigioso di Bernardo rende penosa la vita di Guido nella casa di Albiate dove l’intera famiglia continua a vivere, come nell’azienda, dove Bernardo eserciterà sempre un potere dispotico».
Eppure è proprio Guido che nell’inverno 1956 coglie l’occasione per irrompere nel futuro. Va a sciare a Sankt Moritz con Marco Brunelli, suo amico inseparabile che è poi diventato l’altro signore dei grandi magazzini, fondando la catena Iper che amministra ancora oggi. La sera tirano tardi al bar del Palace, l’albergo del gotha dove allora si potevano incontrare re e petrolieri, Henry Ford e Gregory Peck. Dopo un giro di cocktail, Guido e Marco si recano nei bagni e lì - nella fila degli orinatoi vecchio stile - ascoltano i discorsi tra i fratelli Brustio, proprietari della Rinascente. I Brustio parlano di una trattativa con Nelson Rockefeller per importare in Italia un nuovo modo di vendere merce che spopola negli Stati Uniti: i supermercati.
I due amici capiscono al volo che si tratta di un’opportunità unica. A Milano convincono Bernardo e parte subito l’operazione per battere la Rinascente. Grazie alla mediazione della contessa Laetitia Boncompagni Pecci Blunt, contattano il magnate di New York e riescono ad averlo ospite nella dimora alle spalle della Scala: una cena lombarda, con risotto e involtini, che sancisce la nascita di Esselunga. Viene creata Supermarkets Italiani, dove gli americani hanno la maggioranza e la gestione: il resto è nelle mani dei Caprotti (18 per cento), di Brunelli (10 per cento), dei conti Crespi che possiedono pure il "Corriere della Sera" (16) e di altri soci minori, fra i quali la contessa Boncompagni. Così, il 27 novembre 1957, a Milano si inaugura il primo supermercato mai visto in Italia: una rivoluzione dei consumi.
Sono anni d’oro, quelli del boom. La Manifattura va bene, anche i punti vendita aumentano. Ma il programma di Rockefeller è particolare: unisce al business la volontà di diffondere nel mondo il modello americano, un impasto di affari e politica che ha segnato tutta la carriera del miliardario arrivato alla vicepresidenza degli Usa. Una volta avviata l’iniziativa, nel 1960 gli statunitensi decidono di lasciare l’Italia. I Caprotti si offrono di rilevare il pacchetto di maggioranza per cinque milioni di dollari, una cifra colossale per l’epoca, e ci riescono solo con l’aiuto di mamma Marianne, che mette a disposizione il suo patrimonio personale. Bernardo si presenta in Svizzera con un assegno da quattro milioni, ricevuto dalle mani di Roberto Calvi, allora assistente del presidente del Banco Ambrosiano. La famiglia rastrella altre quote. Brunelli, che aveva corteggiato invano gli americani ed è in rotta con Bernardo, dopo un po’ vende le sue azioni alla Centrale, il salotto buono della finanza controllato da Pirelli, Agnelli, Bonomi, Pesenti e altri nomi blasonati dell’imprenditoria.
Per un decennio in casa Caprotti il lavoro soffoca le tensioni. Guido, che con l’amico Brunelli ha fondato a Roma anche quelli che diventeranno i supermercati Gs, si concentra sempre più sulla fabbrica di tessuti. Claudio studia alla Bocconi, nonostante il primogenito lo accusi di perdere tempo con la tesi, e nel 1962 entra in Esselunga: va a Firenze, dove cura l’espansione in Toscana. Bernardo continua a dedicarsi all’industria tessile fino al 1965, poi lascia per sempre i telai e si dedica anima e corpo alla nuova creatura.
Nel 1971 la Centrale, appena conquistata da Michele Sindona, mette in vendita l’ultima tranche di titoli e i Caprotti sono pronti a comprarla per quattro miliardi di lire. È il momento del successo. L’amministratore delegato Bernardo cambia lo statuto della holding dei supermercati: cade il vincolo che imponeva una maggioranza del 75 per cento per ogni scelta straordinaria, deciso in origine per impedire lo strapotere degli uomini di Rockefeller. Claudio è contrario: sa che le regole che un tempo imbrigliavano gli americani possono ora garantire una maggiore equità anche tra fratelli. Ma alla fine si lascia convincere. Lui e Guido sostengono che Bernardo promette di concordare ogni decisione futura. E loro si fidano della sua parola. L’impegno però, stando alle loro contestazioni, viene disatteso e Bernardo raggira i due fratelli minori. «Non è vero», ribatte il numero uno di Esselunga: «Con loro sono sempre stato corretto».
Nel giro di un paio d’anni i contrasti esplodono. Nel 1973 Guido litiga ferocemente con Claudio e si lega al fratello più grande. Bernardo però - stando alle memorie degli altri due - li tratta sempre peggio. In breve si arriva al tutti contro tutti. L’episodio più clamoroso avviene nel palazzo di Milano. Il 20 dicembre 1974, pochi giorni prima di Natale, a cena Bernardo insulta la mamma. Stando ai fratelli, la accusa di avere tradito il padre, sostiene che Claudio sia stato concepito con un altro uomo. E - secondo il certificato del medico chiamato per curarla - alza le mani su Marianne: il referto elenca tagli alle labbra ed ecchimosi alle braccia guaribili in sette giorni «che dice di avere riportato per percosse subite dal figlio Bernardo Caprotti». Su questo punto però Bernardo oggi è durissimo: «Non ricordo gli atti di quella vicenda, ma questa cosa non esiste. Ho amato mia madre».
Negli atti delle controversie legali si sostiene che lo scandalo non rimane confinato nelle mura domestiche. L’uomo indicato come padre naturale di Claudio chiede ragione a Bernardo. Si affida all’avvocato Giandomenico Pisapia, il riformatore del processo penale e padre dell’attuale sindaco, e dimostra che quell’anno si trovava negli Stati Uniti, ottenendo scuse formali. La madre invece «viene scacciata» dalla casa: le persiane del piano terra restano chiuse da allora. Marianne va a vivere in affitto da amici. I soldi prestati ai figli per rilevare Esselunga non le sono mai stati restituiti: solo un anno più tardi, e solamente grazie alle insistenze di Claudio, le concedono un vitalizio. Poco dopo pure Guido sbatte la porta: anche l’ultimo piano del palazzo milanese viene sbarrato.
La famiglia, in effetti, in quegli anni si dissolve. Bernardo aveva già spinto il fratello più piccolo a lasciare il lavoro nella sede di Firenze («che all’epoca aveva i risultati più brillanti dell’intera azienda») e poi rompe i rapporti con lui. I Caprotti comunicano solo tramite i legali. Con la loro intermediazione, Claudio stringe un accordo che a partire dal 1973 gli permette di incassare ricchi dividendi dall’azienda, valutata 21 miliardi di lire. E sul momento, pur non riuscendo a parlare con i fratelli, non trova motivo di lamentarsi. Di questo patto, sostengono i due fratelli minori, Guido viene però tenuto all’oscuro. Lui vuole concentrarsi sulla Manifattura: i professionisti che assieme a Bernardo gestiscono il gruppo gli offrono la proprietà totale in cambio delle sue quote di Esselunga e una somma di denaro. Un pessimo affare. L’industria tessile entra nel turbine della crisi economica internazionale, tutti i fondi ricavati dalle azioni dei supermarket vengono bruciati da Guido per cercare di salvare la fabbrica creata dal papà. Fino a dover scegliere tra il fallimento e la cessione della Manifattura a Esselunga, in quello che viene descritto come un estremo diktat. Gli passano Bernardo al telefono: «Se non firmi, fallisci».
Claudio invece sarebbe stato tenuto all’oscuro del fatto che i dividendi di Esselunga servano a Bernardo a rilevare le quote dei supermarmarket nelle mani di Guido. E, poi, che il primogenito utilizzi ancora le risorse dell’azienda per far fuori Guido dall’azionariato della Manifattura.
Qui si entra nella materia delle cause legali. Solo alla fine del 1979, dopo sette anni di incomprensioni reciproche, Guido e Claudio si incontrano; solo in quel momento ricostruiscono cosa è successo nelle loro aziende. E confrontandosi ritengono di essere stati defraudati dal primogenito. Contrariamente alla promessa, Bernardo non li avrebbe informati di quello che accadeva nella compagine, sfruttando le loro divisioni per diventare il padrone assoluto del gruppo. Sarebbero stati ingannati anche sul reale valore dell’azienda e quindi delle loro azioni. I loro documenti riportano un commento di Guido Rossi, per un periodo amministratore di Esselunga e poi presidente della Consob: «Una cosa mostruosa, ma non mi meraviglio. Bernardo Caprotti lo conosco da vent’anni». Per l’avvocato che li assiste, il celebre professor Alberto Crespi, ci sarebbe una chiara violazione del codice penale che però è già prescritta. Per Bernardo invece ogni operazione è perfettamente legale. I due fratelli possono solo chiedere un arbitrato, invocando un risarcimento economico: nel 1980 Guido ottiene 300 milioni, Claudio una cifra ben più consistente, poiché ancora proprietario delle preziose azioni dei supermarket. Ed escono definitivamente di scena. «Ma l’arbitrato ha riconosciuto che avevo ragione. Non li ho mai ingannati o raggirati, mai!», insiste oggi Bernardo dal quartiere generale di Esselunga.
Quella che sembra imporsi negli atti raccolti per l’arbitrato, però, è l’abilità di Bernardo nello sfruttare le divisioni tra i fratelli a suo vantaggio. Nel clima di insulti personali («Con urli e scenate accuserà Guido di essere la rovina della famiglia»; «minaccia di licenziamento chiunque abbia rapporti, anche privati, con Claudio»), pare capace di gettare pessima luce sui familiari-azionisti e metterli alle corde.
Indubbiamente il successo di Esselunga è merito di Bernardo, dei suoi sacrifici e delle sue intuizioni. Lavora sempre, allora come oggi e continua a pranzare tutti i giorni nella mensa dei dipendenti. Non ama ostentare il lusso. Non è mai stato coinvolto in procedimenti penali, nonostante abbia gestito operazioni urbanistiche e immobiliari delicatissime: «Mai pagato tangenti, ho sempre detto di no». Con i politici ha un rapporto difficile. Qualche incontro con i socialisti della Milano da bere, rari colloqui con Silvio Berlusconi: nel 1993 ha però finanziato la Lega e più tardi Forza Italia. È rigoroso con se stesso e con il personale, detesta i sindacati e i comunisti. Ha poche passioni. I quadri: alla collezione di famiglia ha aggiunto capolavori di vedutisti veneti, come Canaletto e Bellotto. L’architettura: ha commissionato a grandi maestri le sue strutture, che segue nei dettagli. E la caccia assieme ai suoi cani prediletti.
Si è sposato due volte. Dal primo matrimonio sono nati Giuseppe e Violetta, seguiti nelle seconde nozze da Marina Sylvia. A loro, nel 1996, cede tutte le azioni dell’Esselunga, in parte in modo integrale, in parte girando ai tre soltanto la nuda proprietà dei titoli, dei quali conserva l’usufrutto. E proprio Giuseppe sembrava destinato a succedergli sul trono dei supermarket. La sua gavetta è lunga: da direttore degli acquisti dal 1993 ad amministratore delegato nel 2002. Giuseppe cerca di dare una svolta al gruppo e migliora i profitti. Introduce sugli scaffali prodotti diversi da cibo e detersivi, intuisce il potenziale del mercato biologico e della spesa on line di "Clicca sul pomodoro". La sorella Violetta si fa anche lei le ossa nel delicatissimo settore degli acquisti, si occupa delle fortunate campagne pubblicitarie dell’Armando Testa e punta sulla fidelizzazione dei clienti con la Fidaty Card che oggi è nelle tasche di milioni di italiani. Giuseppe tenta di sostituire i metodi padronali all’antica con uno stile manageriale. Mentre il padre resta onnipresente e vuole l’ultima parola su tutto, conservando la presa sull’intera azienda.
Nel 2004, però, Giuseppe viene messo alla porta assieme ad altri dirigenti, alcuni storici, altri di più fresca nomina. Violetta resta invece in Esselunga, si schiera con il papà e rompe con il fratello, come se quello delle liti fosse un destino di famiglia. L’erede, d’altronde, viene dipinto come «il ragazzo», quanto meno incauto e inadatto a un compito così gravoso, «soprattutto nella scelta dei collaboratori». Nei mesi successivi Bernardo avvia una trattativa per cedere l’Esselunga al colosso Usa WalMart. E chiede ai figli di restituirgli una piccola quota (l’8,6 per cento) del capitale, formalmente sempre intestato a una fiduciaria. I tre, probabilmente, continuano a credere nel fiuto per gli affari del genitore e accettano. Ma la cessione agli americani salta.
Qui si arriva alla cronaca degli ultimissimi anni. Nel 2010 sembra che Bernardo tenti di liquidare Violetta, che resiste. Quando nel luglio salta pure il vicepresidente Paolo De Gennis, che aveva esordito con la gestione Rockefeller, la figlia capisce che troppe cose stanno cambiando senza le necessarie spiegazioni. E per la prima volta torna a parlare con il fratello. Ma è tardi. Nel febbraio 2011 tutte le loro quote azionarie cambiano intestazione: Giuseppe e Violetta lo scoprono quando smettono di ricevere le comunicazioni formali della fiduciaria. Papà li ha buttati fuori, senza nemmeno avvisarli.
Come i loro zii trent’anni prima, i due si sentono ingannati: secondo loro, il padre li ha traditi e ha violato le regole societarie. Chiedono un sequestro d’urgenza delle azioni ma perdono. Il fondatore, ancora una volta, è deciso: le azioni sono sue, quella di Giuseppe e Violetta era un’intestazione fittizia. C’è un arbitrato, che si chiude con un risultato ambiguo: è vero che le azioni erano dei figli, ma Bernardo poteva riprendersele in virtù di una procura che i ragazzi avevano firmato 15 anni prima.
Di sicuro, però, Giuseppe e Violetta qualcosa hanno ereditato dal padre: la stessa determinazione. Hanno fatto ricorso in Corte d’appello contro l’arbitrato e intentato una causa civile per tornare in possesso della quota di Esselunga. La saga del signore dei carrelli continua, la sfida per un impero da sei miliardi di euro andrà avanti. «Il mio è un Natale triste», commenta Bernardo Caprotti: «Mi resta una piccola parte della famiglia. Mia moglie, l’altra mia figlia e i miei nipotini. Ma ho tanti rimorsi e le notti sono lunghe».